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NELLA NUOVA
GUERRA FREDDA

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(WSI) – Chirac contro Cheney, SUV contro minicar, pommes frites contro freedom fries. Ecco la nuova guerra culturale combattuta tra le due sponde dell’Atlantico, nella quale però c’è qualcosa che ignorate: nella sfida mondiale per la supremazia morale ed economica è l’Europa che sta vincendo.

Un fantasma turba l’America e non si tratta del fantasma del comunismo (per quanto George W. Bush e i suoi alleati potrebbero descriverlo in questo modo). A poco più di un decennio dal crollo definitivo del blocco sovietico, gli Stati Uniti si scoprono impegnati in una nuova guerra fredda, combattuta simultaneamente su più fronti – economico, politico e culturale, e ben lontani dall’avere la certezza di vincere. Il mondo unipolare guidato da un’incontrastata egemonia statunitense che ci saremmo aspettati per un indefinito futuro è giunto al termine, ed è durato soltanto il tempo necessario a chiederci cosa sarebbe accaduto di nuovo.

Si, la “vecchia Europa”, tanto per usare la famosa espressione di Donald Rumsfeld, è ritornata e appare assai vivace per l’età che ha. Alla fine anche gli americani stanno cominciando a notare che gli europei (o perlomeno una buona parte di essi) si sono ricostituiti in un enorme superstato transnazionale di 25 nazioni e 455 milioni di abitanti, forte di un’economia da 11 miliardi di dollari. Stiamo parlando, naturalmente, dell’Unione Europea e dei suoi obiettivi, rivelatisi nel tempo ben più significativi rispetto a quelli di cui probabilmente avevate sentito parlare, come permettere ai cittadini di guidare da Siviglia alla Sicilia senza passaporto o di usare una stessa moneta anonima per acquistare una pinta di Guinness a Cork o un bicchiere di ouzo a Creta.

Nel corso degli anni, personalità di rilievo come Alan Greenspan e Henry Kissinger, avevano apertamente espresso le loro riserve riguardo al successo dell’euro, attuale moneta unica di 12 paesi europei (e di molti altri in futuro). Questa settimana la moneta europea ha raggiunto la quotazione record di 1,30 dollari a fronte di una sempre più indebolita economia del dollaro di Bush. Anche altri apprezzamenti sull’Unione Europea, bisbigliati a mezza voce dagli americani – sulla sua burocrazia sclerotizzante che schiaccia, con un eccesso di regolamentazione, imprenditoria e iniziativa o sui suoi sistemi di assistenza sociale che, modellati sul principio “dalla culla alla bara”, affossano l’economia – meritano di essere valutati con lo stesso scetticismo.

Utilizzare un’espressione terribile come “guerra fredda” per descrivere i nostri rapporti con un’entità la cui ragion d’essere è quella di evitare e risolvere ogni guerra o conflitto, può forse risultare allarmistico. I leader politici dell’Unione Europea senza dubbio vogliono essere partner, e potenzialmente anche amici, degli Stati Uniti (e del resto le dichiarazioni di entrambe le parti, dettate dalla realpolitik, continuano a insistere sul fatto che i reciproci rapporti siano cordiali anche quando la realtà, come in questo momento, è ben diversa) ma entrambe le elite sanno bene qual è adesso la posta in gioco e perciò vogliono anche essere concorrenti, persino fieri rivali. Se l’idea originale alla base di un’Europa unita era stata quella di riscattare il vecchio continente dalla povertà, dalla devastazione e da secoli di guerre auto distruttive, più di recente l’obiettivo è stato quello di costruire una “superpotenza buona” che faccia da contrappeso, economico e ideologico, al colosso statunitense.

Una volta compreso che questa guerra fredda combattuta tra le due sponde dell’Atlantico non solo è in atto ma sta anche rapidamente acquistando intensità – come concordano, Jeremy Rifkin e T.R. Reid, autori di due libri sull’ “enigma” Europa usciti quasi contemporaneamente – sarete in grado di interpretare i principali eventi dello scorso anno, o di due anni fa, sotto un’altra prospettiva. Sia la guerra in Iraq, sia le elezioni presidenziali di questo anno, per esempio, inizieranno ad apparire episodi chiave del conflitto America – Europa in atto.

Cos’altro non era, dopo tutto, la sfida Bush-Kerry, se non una specie di declinazione della contrapposizione tra pommes frites e freedom fries, che cosa se non un referendum sull’Europa condotto nell’elettorato americano? Kerry, ci è stato detto, parlava francese e “sembrava” francese: potrebbero apparire battute sarcastiche degne di Fox News ma sono state in realtà affermazioni terribilmente serie.

I francesi hanno senza dubbio vanificato le speranze di Bush per una coalizione realmente internazionale contro l’Iraq e sono diventati, per l’elettorato americano di destra, l’esempio della vigliaccheria e del tradimento internazionale. I francesi sono anche i maggiori sostenitori dell’Unione Europea – improvvisamente, con estrema chiarezza, i nostri principali rivali nella sfida per la supremazia economica e morale del mondo – e se Karl Rove e Karen Hughes non l’avevano pensato consapevolmente, questa conclusione non era poi troppo lontana dall’evidenza.

Kerry si è presentato come un politico internazionalista e secolarista (almeno secondo i canoni americani) in competizione con un uomo che si è “avvolto nella bandiera” statunitense e che era guidato dall’ispirazione divina. Bush non ha partecipato alla competizione elettorale come un americano ma come l’America stessa ossia la nazione che, secondo un’espressione di Rifkin, “sembra abitare in due contraddittori regni allo stesso tempo”: quello della fede protestante evangelica nella salvezza e quello del razionalismo affaristico che spinge ad accumulare benessere. Ciò ha assegnato a Kerry il ruolo dell’Europa intellettuale e laica, attraversata dagli sbiaditi fantasmi del socialismo e del cattolicesimo, che crede nei diritti umani universali e nelle soluzioni di negoziazione sebbene non sia troppo orientata verso una prospettiva di trasformazione spirituale.

Forse può essere necessario osservare le elezioni da vicino e quale è stato il loro risultato. In questo paese c’è una vasta classe di persone che si riconosce nel “sogno europeo”, quello di un mercato economico gestito ove la cooperazione prevalga sulla competizione, il tempo libero sia privilegiato rispetto al lavoro e i costi sociali del capitalismo siano strettamente regolati e credo sappiate, a chi tra voi, gentili lettori, mi sto riferendo; tuttavia per la maggior parte degli americani la parola “libertà” continua a voler dire nessun impedimento ai diritti di proprietà privata, mercati aperti, “lavoro-dipendenza” e incrollabile fiducia nel credo che tutti noi, in un modo o nell’altro, moriremo ricchi.

Se ritorniamo a 18 mesi fa, una delle considerazioni strategiche che ha suggerito all’amministrazione Bush l’invasione dell’Iraq era stata senza dubbio l’opportunità che offriva di giungere a una distinzione tra i politici pro e anti-America in Europa. Assicurandosi l’appoggio di Tony Blair in Gran Bretagna, José Maria Aznar in Spagna e Silvio Berlusconi in Italia, l’amministrazione Bush può aver sperato di sgretolare l’idea di un’Europa in grado di avere un’unica voce tanto in politica estera, quanto nelle azioni militari (uno degli obiettivi dell’Unione Europea) per la prossima generazione.

All’inizio, come afferma Reid, decano dei corrispondenti del Washington Post, nel suo libro “Gli Stati Uniti d’Europa”, questa strategia si è rivelata valida. I tre primi ministri ricordati hanno accettato di sostenere l’America nella guerra in Iraq, mentre altri leader europei hanno esitato nell’esporsi, cercando in qualche modo di situarsi in uno spazio intermedio tra la posizione di Bush e Blair e la veemente determinazione anti-bellica del presidente francese Chirac e del cancelliere tedesco Gerhard Schröder.

Poi però gli avvenimenti hanno sorprendentemente preso un’altra piega e quando è stato il momento di sollecitare il voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per l’autorizzazione all’azione militare, gli americani sono stati scavalcati. Molte tra le nazioni più povere del Consiglio hanno ricevuto aiuti sostanziosi dall’Europa – gli aiuti stanziati dall’Unione Europea per i paesi in via di sviluppo sono tre volte tanto quelli predisposti dagli Stati Uniti – e hanno sperimentato la maggiore affabilità e disponibilità dell’azione di pressione della Francia e della Germania rispetto a quella dei britannici o degli americani.

Bush e Blair avevano bisogno di nove voti e non ne hanno avuti che quattro; almeno in questa arena limitata, dice Reid, “l’influenza politica dell’Europa si è dimostrata più forte della potenza militare americana”. Inoltre, la guerra in Iraq è diventata l’evento catalizzatore e radicale per una intera generazione di giovani europei che, secondo l’analisi di Reid, hanno potuto percepire, in questo frangente, loro stessi come cittadini europei, al di là delle singole e differenti nazionalità. Nella primavera 2003, mentre le elite politiche europee tentennavano, i cittadini dell’Europa affluivano nelle strade a milioni, manifestando un rifiuto pressoché unanime alla guerra in Iraq e più in generale, alla politica estera interventista dell’agenda Bush (e anche, in buona misura, contro ciò che la maggioranza degli europei percepisce della cultura sprecona dell’America fatta di burger, suv e obesità). I sondaggi rivelavano lo scoppio di un sentimento anti-americano anche in paesi come la Gran Bretagna, l’Italia o la Polonia, rimasti ufficialmente nella coalizione di Bush (la cosiddetta “coalition of the willing”). In alcuni paesi europei gli Stati Uniti sono considerati più pericolosi per la pace mondiale di nazioni come Iran o Corea del Nord e anche George W. Bush è meno popolare in Scandinavia, ad esempio, che non nei paesi del mondo arabo.

Questi giovani europei, sostiene Reid, che avvertono adesso il senso del proprio potere politico ed economico, hanno costruito una sorta di “Eurocultura pan-continentale” che prende a prestito quello che ritiene valido della cultura americana, pur restandone adesso indipendente. “Per molti europei, oggi – scrive Reid – il concetto familiare di occidente, di quella alleanza transatlantica fondata su valori condivisi e nemici comuni, rappresenta una reliquia dell’altro secolo.” In questo secolo, il loro obiettivo è sfidare l’affermazione americana per la supremazia globale, almeno in termini morali e politici.

In un recente viaggio in Germania, mi ha molto colpito scoprire quanto l’Europa continui a sentirsi non americana, malgrado tutti i discorsi in senso opposto che abbiamo sentito. Certo è possibile mangiare in un “Pizza Hut” o fare acquisti a WalMart anche ad Amburgo e gli adolescenti del posto preferiscono vestire secondo la moda dell’hip hop americano dello scorso anno o indossare cappelli degli Yankees (mi dispiace per il Boston ma il vostro trionfo non è riuscito a far breccia nel vecchio mondo) ma queste cose, rimosse dal loro contesto originale, sono divenute, come Madonna o David Beckham, simboli variabili di una cultura globale che supera ogni nazionalità. Il ritmo vitale del luogo non ha niente a che vedere con il febbricitante consumismo che attraversa le città e le periferie dell’America e mentre bar e caffetterie rimangono a lungo affollati anche dopo la mezzanotte per sette giorni su sette, non sono riuscito a trovare nessun posto in Amburgo, dopo mezzogiorno di sabato, dove acquistare articoli vari, giocattoli o libri in edizione economica.

“Il momento dell’Europa è quasi arrivato”, dice Reid citando un’espressione dell’attuale presidente dell’Unione Europea Romano Prodi. “Ci sono molti ambiti degli affari internazionali dove oggettivamente la conclusione mostrerebbe che l’Europa è già una superpotenza e che gli Stati Uniti non possono che seguire la nostra guida.” Sono affermazioni come queste che hanno preoccupato fortemente Rumsfeld, Dick Cheney e il resto dei neoconservatori. Sanno perfettamente che Prodi ha colto nel segno – anche se pubblicamente lo deriderebbero – e che non possono farci molto.

Dopo l’allargamento, nel maggio scorso, ai paesi dell’Europa centrale e orientale, l’Unione Europea ha adesso una popolazione maggiore rispetto agli Stati Unti e un’economia leggermente più potente e anche se, come Jeremy Rifkin dichiara nella sua densa e accurata ricerca intitolata “Il sogno europeo”, gli Stati Uniti rimangono primi per reddito pro capite, la differenza non è così significativa come può sembrare.

Molta della “produttività” americana, suggerisce Rifkin, è giustificata da un’attività economica che potrebbe essere benissimo definita come dispendiosa: spesa militare; l’espansione infinita della spesa pubblica per polizia e burocrazie penitenziarie; i costi vertiginosi per l’assistenza sanitaria; la crescita disordinata di vaste aree suburbane; l’industria del fast food, con l’inevitabile corollario della mania delle diete. Le comparazioni significative dei parametri della vita sono, continua Rifkin, costantemente a favore dell’Europa. In Francia, ad esempio, la settimana lavorativa è di 35 ore e molti impiegati prendono da 10 a 12 settimane di ferie all’anno, fattori che ovviamente deprimono il tasso di produttività. Tuttavia occorrerebbe il cuore di ghiaccio di John Locke per affermare che la Francia sia una nazione meno ricca a causa del tempo che le persone trascorrono in campagna, tra vino rosso e Camembert, in compagnia di amici e familiari.

“Il sogno europeo” risulta il più affascinante dei due libri, dato che Rifkin – autore in precedenza di altri due originali volumi: “La fine del lavoro” e “Il secolo della bioetica” – conduce un’approfondita ricerca, storica e sociologica, delle origini della guerra fredda transatlantica; se invece avete intenzione di leggere un’indagine meno impegnativa su come l’Unione Europea sia nata (traendo origine da una modesta intesa franco-tedesca, all’indomani della seconda guerra mondiale, per il carbone e l’acciaio), come sia divenuta il colosso che oggi vediamo e su cosa sia effettivamente adesso, il libro di Reid “Gli Stati Uniti d’Europa” rappresenta la scelta migliore.

Di fronte alla domanda su cosa sia realmente l’Unione Europea, nessun autore riesce a dare una risposta che non sia condizionata, in buona parte perché gli europei stessi non sembrano a loro volta abbastanza sicuri. Prima ho parlato dell’Unione Europea come di un “superstato” benché in realtà non si tratti di uno stato nazionale secondo i canoni convenzionali: non governa fisicamente nessun territorio, non ha alcun potere di tassazione sui propri cittadini e dispone di poteri alquanto limitati in termini di polizia; per contro, tuttavia, ha un parlamento eletto direttamente e un organo esecutivo, un sistema giudiziario e una banca centrale, ciascuno dei quali in grado di prevalere sulle leggi dei 25 stati membri. (Inoltre può disporre adesso anche di un proprio apparato militare, una forza di 60000 unità o l’Euro-esercito, uno sviluppo che comportò non poca tensione a Washington.)

Perlomeno una parte di questa ambiguità è intenzionale e l’Unione Europea sembra differente a seconda di chi la osservi. Per nazioni “euro-entusiaste” come Francia, Germania e Paesi Bassi, l’Unione Europea è un superstato federale in grado di superare i vecchi problemi del nazionalismo e della sovranità, mentre per i paesi più distaccati, come Gran Bretagna e Svezia (nessuna delle quali ha accettato l’euro) l’Unione è una confederazione senza vincoli di stati che rimangono in larga parte autonomi. Rifkin parla dell’Unione Europea come della “prima istituzione governativa veramente post moderna”, accentuando l’affermazione, in un altro punto, fino a definirla come la “prima regione governativa post territoriale in un’economia globale di network e interazioni”. (Apprezzo le escursioni storiche e filosofiche di Rifkin nel tracciare il quadro dei rapporti Stati Uniti – Unione Europea, eppure la sua tendenza a divenire quasi elegiaco con le affermazioni da alta scuola di finanza mi fa venir voglia di controllare se ho ancora il mio portafoglio.)

Se l’Unione Europea non ha intenzione di sfidare la supremazia militare americana – Rifkin e Reid sembrano concordare – ciò costituisce davvero l’asso nella manica dell’Europa. Lasciamo che gli americani riversino infiniti miliardi di tasse dei contribuenti nelle spese del Pentagono, argomentano gli europei; per come vedono loro la questione, la chiave per un futuro di pace e prosperità risiede altrove, nella costruzione di complesse reti di interazione sociale e di cooperazione economica che indeboliscano nazionalismi e fondamentalismi di ogni genere. Così, mentre gli Stati Uniti pagano il conto della complicata guerra in Iraq e accumulano enormi budget e deficit commerciali, l’Europa ha speso i suoi soldi in altre priorità.

Qualunque siano le vostre reazioni, razionali o emotive, a questo inedito conflitto transatlantico, è difficile per ogni americano leggere il libro di Rifkin senza avvertire un senso di vergogna. Gli Stati Uniti hanno perduto consistentemente terreno rispetto alle nazioni occidentali dell’Unione Europea nei tassi relativi alla mortalità infantile e all’aspettativa di vita, nonostante spendano più di qualsiasi altro stato europeo per l’assistenza sanitaria pro capite. (Mentre 40 milioni di americani non godono di alcuna copertura assicurativa, nessuno in Europa – e sottolineo, nessun singolo individuo – manca di una copertura sanitaria.)

I bambini europei hanno sicuramente una migliore educazione; gli Stati Uniti sarebbero al nono posto, in Unione Europea, nella lettura, noni negli studi scientifici, e tredicesimi in matematica. Il 22 per cento dei bambini americani cresce in condizioni di povertà, dato questo che pone il paese al 22° tra le 23 nazioni industrializzate davanti solo al Messico e dietro a tutti i 15 stati europei prima dell’allargamento del 2004. Ci si chiede cosa sia più sconvolgente: il dato statistico in sé o il fatto che nessun politico americano alla destra di Dennis Kucinich l’affronterebbe mai?

Forse ancora più sorprendente è il fatto che l’economia europea non sia stata strangolata dal proprio sistema di welfare e che anzi appaia vero il contrario. L’Europa ha sorpassato gli Stati Uniti in molti settori riguardanti l’alta tecnologia e la finanza, incluse le tecnologie wireless, il sistema computazionale (grid computing) e il settore assicurativo. In Europa vi è una proporzione più alta rispetto all’America di piccole imprese il cui tasso di successo è anch’esso più alto di quello americano. I capitalisti americani hanno iniziato a fare attenzione a tutto questo. Nel libro di Reid il presidente della Ford Motor Co., Bill Ford, afferma che la società consociata della Volvo è molto più redditizia rispetto ai complessi industriali negli Stati Uniti, nonostante salari e benefit siano più alti in Svezia. Secondo Ford sono l’assistenza sanitaria sovvenzionata dallo stato, l’attenzione all’infanzia, le pensioni e gli altri sostegni sociali a fare più di ogni altra cosa la differenza.

La nuova costituzione europea attualmente al vaglio degli stati membri è un voluminoso documento dal gergo burocratico di 265 pagine in inglese (molte di più in francese e spagnolo) che dovrebbe essere di ispirazione per i progressisti di tutto il mondo. Il testo stabilisce la proibizione della pena capitale in tutte le 25 nazioni dell’Unione e tratta temi quali quelli relativi all’assistenza sanitaria per tutti, all’assistenza all’infanzia, ai permessi annuali retribuiti, al congedo parentale, agli alloggi per i poveri e all’uguale trattamento per gay e lesbiche come diritti umani fondamentali. Molti di questi argomenti sono tuttora questioni molto dibattute in America; come afferma Rifkin, il documento fa dell’Europa il maggior leader nel dibattito mondiale per i diritti umani. E’ il primo documento governativo che aspira all’universalità, “con diritti e responsabilità che includono la totalità dell’esistenza umana sulla terra.”

Sebbene sostenitori imperterriti dell’Europa, Rifkin e Reid invitano gli elettori di Kerry, pieni di aspettative verso il sogno europeo, a riflettere bene e a lungo prima di fare domanda di asilo presso il più vicino consolato o ad impegnarsi nella ricerca di ascendenze europee nel proprio albero genealogico. (Per il momento posso rimanerne fuori, visto il doppio passaporto che possiedo). L’Europa, nonostante la grandeur della sua nuova immagine, continua ad avere tassi di disoccupazione relativamente alti e una crescita economica che procede ancora a rilento. Il vecchio continente si trova a dover affrontare problemi strutturali come, in primo luogo, la diminuzione delle nascite che, unitamente ad una persistente ostilità verso l’immigrazione, ha condotto la popolazione europea a tassi di invecchiamento più veloci rispetto all’America. Fino a che questa bomba demografica non sarà disinnescata, l’Europa dovrà inoltre rinegoziare i diritti e i vantaggi del suo stato sociale, sebbene esso sia molto generoso se paragonato agli standard americani.

Malgrado le profonde ineguaglianze, gli Stati Uniti rimangono, in buona parte, una società più dinamica, con una maggiore mobilità sociale ed ancora in grado di offrire agli individui quell’opportunità di continua “reinvenzione” che è alla base del sogno della nostra nazione. Rifkin legge in questa nuova guerra fredda con l’Europa una buona occasione, nel lungo periodo, di rinnovare la sinistra americana (per quanto i prossimi quattro anni rischino di essere piuttosto duri); gli americani, per esempio, possono cogliere l’occasione di imparare che capitalismo senza restrizioni, tassazione regressiva e una rete minima di sicurezza sociale non costituiscono l’unica maniera per garantire prosperità e che la nostra definizione di cosa costituisca prosperità potrebbe forse essere sottoposta ad una attenta verifica.

Mentre l’America ha trascorso l’ultimo decennio, o giù di lì, a preoccuparsi delle proprie questioni interne, tra battaglie faziose sugli scandali della Casa Bianca e contestazioni elettorali, minaccia del terrorismo, guerra in Iraq e un dibattito pubblico rabbiosamente polarizzato, l’Europa si è quietamente congiunta e unita in un imponente tutt’uno, la nuova superpotenza mondiale. L’Unione Europea ha creato, malgrado le ramificazioni burocratiche e le sfide che deve affrontare, una società armoniosa in un continente che ha passato molta della propria storia in continue guerre interne.

L’ascesa dell’Unione Europea può difatti, dice Rifkin, rappresentare una nuova fase della storia
E noi ne abbiamo visto appena l’inizio. Mentre il risultato di questa nuova guerra fredda tra Europa e America è tutt’altro che chiaro, dovremmo interrogarci seriamente su quanto fin qui è avvenuto.

L’Unione Europea ha raggiunto efficacemente i propri obiettivi tanto che gli idealisti dello scorso secolo, che osarono immaginare un’Europa unita, prospera e in pace, sembrano adesso profeti che incutono rispetto. Se non altro rappresenta una lezione sulla potenza di un ideale.

“Io sono un democratico” scrisse James Joyce nel 1916, mentre nelle Fiandre i giovani europei di un’intera generazione si combattevano l’un l’altro. “Mi adopererò e agirò per la libertà sociale e l’uguaglianza di tutte le classi e fra gli uomini e le donne negli Stati Uniti d’Europa del futuro”. Chi allora lesse quelle parole rise amaramente: l’Europa era avvelenata dai gas chimici della guerra e della storia e l’America era la terra libera e democratica, del futuro. Adesso nessuno ride più.

Fonte: http://www.truthout.org/docs_04/111604F.shtml

Traduzione di Eny Giambastiani per Nuovi Mondi Media, ripubblicato per un accordo con Wall Street Italia.