(WSI) – Ieri alla riunione quindicinale del direttivo della Banca centrale europea il presidente Jean-Claude Trichet si è presentato avendo ben definito in precedenza con il falco Otmar Issing i due pilastri del proprio intervento. Andavano stroncate sul nascere, le pesanti indiscrezioni di un ritorno a operazioni concertate sui mercati con la Bank of Japan, per arginare il rovinoso deprezzamento del dollaro, indiscrezioni rumorosamente rilanciate dal Financial Times.
Ancor prima della riunione del board, dalla Bce alla propria controparte giapponese è stata inoltrata una ferma richiesta di smentita, puntualmente venuta dopo poche ore per bocca del ministro delle Finanze Sadakazu Tanigaki. E all’incontro con la stampa seguito alla riunione Trichet su questo è stato granitico, «occorre disciplina verbale», «gli interventi sono un’arma che in passato ha funzionato», come a dire che oggi potrebbero fare cilecca, e comunque non se ne parla proprio.
Il secondo pilastro è consistito nel far passare un brivido alla schiena di tutti i ministri dell’Economia dell’euroarea, perché ai componenti del board della Bce Trichet ha comunicato che neutralmente i tassi non sarebbero stati toccati, ma alla successiva conferenza stampa lui avrebbe detto che “si era preso in considerazione l’ipotesi di alzarli, anche se poi non se n’è fatto nulla”. In altre parole, l’esatto contrario di quell’allascamento della politica monetaria invocata a gran voce dal concerto politico europeo.
Non c’è dunque da stupirsi, se nelle ore immediatamente successive alla conferenza stampa di Trichet l’euro si è ulteriormente apprezzato fino a 1,34 sul dollaro, prima di ripiegare, nella serata. L’effetto è stato esattamente quello attentamente voluto e ricercato, usando tali formule di comunicazione. Il fine deliberato è quello di lanciare un messaggio molto energico ai prossimi Ecofin.
Visto che governi come quelli di Italia, Spagna e Germania non demordono dal richiedere una modifica esplicita del Patto di stabilità volta a renderlo meno “stupido” e più duttile rispetto alle esigenze di rilancio della crescita, la Bce è pronta al fuoco di controbatteria alzando persino i tassi d’interesse, cioè dando una mano alla rivalutazione dell’euro, pur di impedire le modifiche al Patto.
Uno scontro suicida, quello in corso tra il sovrano autonomo della politica monetaria europea, e il disallineato e scoordinato potere politico spodestato delle politiche fiscali e di bilancio. Uno scontro che potrebbe giustificarsi solo di fronte a una temuta ripresa dell’inflazione.
E infatti ieri Trichet ci è andato giù pesante, nell’esprimere preoccupazioni per gli effetti sui prezzi del caro-petrolio. Solo che negli ultimi giorni il petrolio è in discesa. E non solo. E’ vero che ieri la Bce ha corretto al ribasso le stime di crescita dell’euroarea di uno 0,4 per cento, all’1,8 per cento per il 2004 e all’1,9 per cento nel 2005, ma le stime dell’inflazione – proprio quelle che dovrebbero da sole giustificare un’eventuale ritocco verso l’alto dei tassi d’interesse – restano invariate tra il più 2,1 e il più 2,3 per cento nel 2004, e una ancor più rassicurante forbice tra un più 1,5 e un più 2,5 per cento nel 2005.
Anzi la release di ieri è esplicita nell’affermare che il contributo del greggio all’indice dei prezzi al consumo sarà in discesa, nel 2005. In altre parole, il gioco della minaccia al rialzo dei tassi da parte della Bce è solo e tutto politico. E in quanto tale è molto pericoloso, oltre che discutibile.
Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, ecco invece i frutti della ben diversa linea monetaria seguita da Alan Greenspan, in piena sinergia con i tagli alle tasse ruggenti di Bush. E’ vero, il deficit delle partite correnti americano è sostenuto in maniera crescente dalle banche centrali asiatiche, che sono passate dall’acquistare 44 miliardi di dollari di Treasury bonds nel 1999 a ben 249 miliardi nel 2003, cifra che sarà di molto superata nell’anno che volge al termine.
Per conseguenza, se 10 anni fa il debito americano era in mani straniere per una quota pari solo al 20 per cento, oggi è salita al 50. Il solo Giappone, nello scorso settembre, risultava detenere 720 miliardi di obbligazioni pubbliche Usa, raddoppiando la cifra di 4 anni prima. E la Cina per 174 miliardi, triplicando l’ammontare di soli 20 mesi prima. E’ la misura di quanto l’Asia sia stata e resti disposta – da sola – a pagare per evitare l’eccessivo deprezzamento del dollaro. Ma è una gara alla quale l’Europa non partecipa, e per questa assenza il suo ruolo di interlocuzione rispetto a Washington è obbligatoriamente assai più ridotto dei partner asiatici.
Agli ortodossi di Francoforte, convinti che lo squilibrio del doppio deficit americano potrebbe rovinosamente cadere da un momento all’altro, Greenspan risponde con ricerche come quella di Michael Salant alla mano, che attestano che oltre il 50 per cento dei flussi reali di capitale a sottoscrivere titoli americani trovano in realtà spiegazione nella più elevata produttività e crescita che l’economia reale Usa è in grado di offrire. E che cosa ha da rispondere, l’Europa, a questo, se non un colpevole silenzio?
Ieri Wim Kok ha approfittato della riunione del board della Bce per rilanciare gli obiettivi di competitività adottati anni fa a Lisbona. Ma è un puro mantra, il ritardo accumulato per assenza di riforme adeguate è pressoché incolmabile, e tutti lo sanno. Anche e soprattutto i banchieri centrali di Francoforte, che forse dovrebbero pensare ad abbassarli, i tassi, invece di minacciare di alzarli.