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BANCHE E FAIR VALUE, BRUTTE SORPRESE

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(WSI) – È sorprendente che cosa può fare un piccolo raggio di sole. Analizzando le note a piè di pagina contenute nella trimestrale della banca regionale statunitense Regions Financial Corp., emergono alcuni interessanti particolari. Nel documento, in una tabella, si legge che i prestiti del suo portafoglio, al 30 giugno, valevano 22,8 miliardi di dollari in meno rispetto a quanto scritto all’interno del bilancio. A conti fatti, se non si considerassero i crediti «gonfiati», la patrimonializzazione della banca sarebbe inferiore a zero. Eppure, il governo continua a classificare le banche regionali come «ben capitalizzate».

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E se pur rivelazioni di questo tipo, numerose, non sono nuove, lo è la loro frequenza. Con i risultati trimestrali estivi, per la prima volta le società statunitensi sono state obbligate a pubblicare il valore delle proprie partecipazioni finanziarie al fair value e su base trimestrale. In precedenza, tali disclosure erano richieste solo una volta all’anno, secondo quanto prescritto dal Financial Accounting Standards Board. La tempistica di queste rivelazioni è inquietante.

Il mese scorso, con una decisione che ha fatto infuriare la lobby bancaria Usa, la Fasb ha detto che avrebbe proceduto con un piano per espandere l’uso della valutazione a fair value per la contabilità degli strumenti finanziari. In breve, la maggior parte delle attività e delle passività finanziarie dovranno essere contabilizzate a fair value ogni trimestre, anche se non tutte le modifiche (che ne conseguirebbero) del loro valore andranno a incidere sul risultato netto. Un documento formale a questo proposito dovrebbe essere rilasciato entro la fine dell’anno.

Le nuove regole avranno l’impatto maggiore sulla contabilità dei prestiti. Le attuali regole della Fasb permettono ai creditori di valutare la maggior parte dei capitali prestati ai costi storici, «etichettandoli» in qualità di held to maturity o held for investment (crediti che la società ha intenzione di detenere fino alla scadenza). Questo significa che le perdite su quei crediti vengono riconosciute solo quando il management le ritiene probabili. Il che potrebbe avvenire con molto ritardo rispetto al momento in cui tali perdite sono state effettivamente diagnosticate. L’utilizzo del fair value, insomma, renderebbe più rapida la ricognizione delle perdite su crediti, che risulterebbero così all’interno del bilancio.

È vero che le banche regionali rappresentano un esempio estremo del meccanismo dei crediti gonfiati, ma non sono il solo caso. Bank of America ha comunicato che i suoi crediti al 30 giugno erano 64,4 miliardi di dollari in meno di quanto dichiarato all’interno del bilancio. La differenza rappresenta il 58% del Tier 1 Common Equity, una grandezza del capitale utilizzato dai regolatori e che esclude, rispetto all’indicatore Tier 1, le azioni privilegiate e gli asset intangibili come gli avviamenti pagati per acquisire altre società. Wells Fargo & Co. ha dichiarato che il fair value dei suoi crediti era 34,3 miliardi di dollari in meno rispetto ai valori di libro al 30 giugno. Il Tier 1 Common Equity era di 47,1 miliardi.

La differenza tra i due valori è cresciuta con il procedere dell’anno. A fine 2008 il gap, per Bank of America, era di 44,6 miliardi di dollari. Per Wells Fargo era di «appena» 14,2 miliardi, meno della metà di quanto avrebbe registrato sei mesi dopo. Tra i creditori con ampie divergenze sui valori dei loro crediti c’è SunTrusts Banks Inc., che ha mostrato un gap di 13,6 miliardi al 30 giugno, maggiore dello stesso Tier 1 Common Equity pari a 11,1 miliardi di euro. Per KeyCorp il valore dei propri crediti era 8,6 miliardi di dollari in meno rispetto ai valori di libro; il suo Tier 1 Common Equity era pari a 7,1 miliardi di dollari.

In generale, quando il valore di mercato di un credito scende, il creditore può reagire aumentando i costi sul prestito. Quindi osservatori esterni potrebbero percepire un rischio maggiore di default rispetto al management oppure ipotizzare che i collateral a garanzia del prestito si siano svalutati, anche se il debitore non ha mancato una sola rata. Il trend dei crediti bancari non è uniforme. Dodici delle 24 compagnie dell’indice Kbw, inclusa Citigroup Inc., hanno dichiarato che il valore di mercato dei loro prestiti si discostava dell’1% rispetto al valore di libro. Al 30 giugno, il controvalore dei crediti di Citigroup era pari a 601,3 miliardi, ovvero 1,3 miliardi in meno del loro valore di libro. Alla fine del 2008 il gap era di 18,2 miliardi di dollari.

Anche in questo caso la storia insegna: un problema comune alle savings and loans associations, le banche specializzate in mutui a condizioni favorevoli che fallirono durante gli anni ’80, era il fatto che queste banche ricorrevano a prestiti a corto termine e a tassi di mercato per finanziare le loro operazioni, che consistevano principalmente nell’emettere mutui a lungo termine e a tassi fissi. Quando i tassi di mercato sono saliti all’improvviso, si sono ritrovate con asset incapaci di generare ritorni sufficienti a coprire le proprie passività. Se le banche fossero state costrette a registrare a fair value i loro crediti, i loro problemi sarebbero stati chiari fin dall’inizio (la Fasb ha richiesto la comunicazione annuale delle passività a fair value solo a partire dal 1994).

I gap emersi con le relazioni trimestrali evidenziano l’arbitrarietà dei valori di libro e del capitale di vigilanza. Le banche hanno già la possibilità di scegliere se precisare, o meno, il valore a fair value. Per la maggior parte dei crediti scelgono di non farlo, poiché sono considerati come held to maturity e le banche sperano di recuperare nel frattempo il valore perso. Di conseguenza, la scelta tra l’essere capitalizzati in maniera adeguata ed essere sottocapitalizzati si risolve nelle riflessioni di un amministratore delegato ben pagato.

È vero che le stime a fair value elaborate in un orizzonte di corto termine possono costituire un indicatore della povertà di un asset che non tiene conto della sua eventuale rivalutazione sul lungo termine, specialmente quando i mercati non funzionano come dovrebbero. Il problema, però, è che le intenzioni del management potrebbero essere ancora meno affidabili di un metodo come quello del fair value. Per lo meno ora ci troviamo di fronte a numeri reali, anche se è necessario scavare tra le note a piè di pagina per scoprirli.

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