*Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia e Finanze nel governo
Prodi (2006-8); Paolo Raimondi, economista. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero degli autori e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Le grandi istituzioni economiche internazionali, come la BCE e il FMI, si
fanno concorrenza con analisi sempre più negative sugli effetti della
crisi finanziaria ed economica sistemica globale. Questo vale anche per
l’Italia
dove sia la Commissione Europea che la Banca d’Italia hanno indicato una
riduzione negativa del 2% del PIL per il 2009. E, non per un pessimismo
endemico ma per realismo, riteniamo che queste revisioni al ribasso
purtroppo dovranno essere presto ulteriormente ritoccate.
Probabilmente necessita un approccio da “curatore fallimentare” alla
crisi, cioè quello di salvare il sistema bancario sia nazionale che
internazionale solamente attraverso un procedimento di “bancarotta
controllata”. Sono parole forti che possono far paura a chi pensa che
l’economia
si basi primariamente su fattori psicologici e non sui pilastri portanti
dell’economia reale fatta di investimenti produttivi e consumi necessari e
utili.
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In questi giorni si parla di bad bank, cioè di strumenti ad hoc dove
collocare i “titoli tossici” e senza alcun valore delle banche, a
cominciare dai derivati OTC che sommano a un valore nozionale di 700.000
miliardi di dollari.
La soluzione è giusta ma la questione di fondo è: chi paga? I responsabili
della crisi e anche alcuni esponenti di vari governi (Henry Paulson, ex
ministro del Tesoro americano, Ben Bernanke, capo della Federal Riserve,
Gordon Brown, primo ministro britannico) sostengono che la bad bank debba
essere garantita con i soldi dello stato.
Sarebbe una grande truffa, solamente sotto un altro nome, dove le finanze
pubbliche verrebbero utilizzate per un gigantesco bail out, un salvataggio
con pagamenti a fondo perduto per coprire i buchi lasciati dalla
speculazione e da banchieri senza scrupoli.
Invece queste bad bank devono rimanere nella responsabilità delle banche
che verrebbero però messe in condizione di poter operare a sostegno
dell’economia
reale. La bad bank così concepita avrebbe il compito di far prosciugare la
palude dei derivati e dei titoli tossici. Il compito degli stati invece
dovrebbe limitarsi a formulare subito nuove regole per permettere dei
cambiamenti contabili e far transitare i titoli tossici dai bilanci delle
banche verso questi nuovi contenitori ad hoc consentendone il congelamento
per alcuni decenni se necessario, per una eventuale futura loro soluzione
nell’ambito del sistema bancario stesso. Lo stato dovrebbe dare subito
indicazioni precise per controllare e limitare globalmente le operazione
finanziarie derivate, così come ad esempio disposto dal governo Prodi nei
confronti degli enti locali. Anche la Germania sta pensando in questa
direzione e il ministro dell’Economia Peer Steinbruck ha denunciato la bad
bank stile Federal Riserve come pericolosa “dinamite politica”.
I salvataggi delle banche devono servire a far rifluire il credito nel
sistema produttivo, soprattutto nel tessuto delle piccole e medie
industrie ma, senza le nuove regole necessarie, i finanziamenti pubblici
si perderebbero nei buchi neri dei bilanci delle banche. Anche l’eventuale
abbassamento dei tassi di interesse fino al livello di ZIRP (zero
interest rate policy) non sarebbe capace da solo e automaticamente di
rimettere in moto il motore dell’economia.
Intanto nel nostro paese lo stato ha uno strumento formidabile per dare
una spinta propulsiva alla ripresa economica, la Cassa Depositi e Prestiti
con una riserva calcolata intorno a 100 miliardi di euro. La CDP dovrebbe
finanziare le nuove grandi infrastrutture, tra cui la logistica e le reti
telematiche e non, con un’attenzione particolare verso il Mezzogiorno che
ha un gap intollerabile che condiziona negativamente l’economia dell’intero
paese.
In una crisi epocale come quella attuale, gli stimoli e i sostegni ai
consumi sono necessari ma non possono bastare a rimettere in moto i
processi economici. Bisogna puntare alla crescita complessiva dell’economia
per poi certamente meglio distribuire. Per questo gli impegni a mantenere
livelli di vita, stipendi, salari e pensioni devono accompagnarsi alla
messa in cantiere di grandi progetti, di infrastrutture, di
modernizzazioni che guidino il paese per i prossimi 50 anni. Davanti a noi
e nell’immediato abbiamo sfide come l’indipendenza energetica, lo sviluppo
del Mezzogiorno in un’Italia partecipe dell’Europa ed economicamente
moderna da Nord a Sud.
Non si esce dalla crisi “mantenendo” soltanto i livelli di produzione e di
reddito; non si tratta di “riempire le buche”, bensì di formulare un
intero progetto di sviluppo nuovo e diverso per la creazione di nuova
ricchezza e di reddito.
Il continuo litigio tra governo e opposizione sulle cifre economiche, come
avvenuto sul decreto anti crisi, e sulla divisione e distribuzione di una
torta che si fa di giorno in giorno più piccola, finisce col nascondere i
veri problemi economici delle regioni del Nord e penalizza ancor di più
quelle del Sud.