(WSI) – La situazione attuale appare a prima vista irrealistica: le borse volano (mercoledì l’indice americano Dow Jones è ritornato sopra la quota psicologica dei 10.000 punti), i mercati dei capitali lavorano a pieno ritmo e le grandi banche internazionali hanno ripreso a registrare grandi utili nelle attività di trading che hanno originato la crisi. L’unico neo è rappresentato dai mercati dei cambi dove il dollaro e la sterlina britannica continuano a deprezzarsi.
La debolezza del biglietto verde statunitense, che è ad un passo dalla parità con il franco e prossimo a quota 1,50 rispetto all’euro, ha messo le ali all’oro e sta facendo lievitare i prezzi di alcune materie prime. Questo apparente miracolo di un mondo finanziario risorto dalle sue ceneri ha un’unica causa: l’incessante attività di stampa di moneta condotta in principal modo dalla Federal Reserve americana e dalla Banca d’Inghilterra e in misura più moderata dalla Banca centrale europea e dalla Banca Nazionale Svizzera. L’enorme quantità di capitali in circolazione a costi irrisori fornisce l’impressione che la crisi sia ormai superata. Se puo’ interessarti, in borsa si puo’ guadagnare con titoli aggressivi in fase di continuazione del rialzo e difensivi in caso di volatilita’ e calo degli indici, basta accedere alla sezione INSIDER. Se non sei abbonato, fallo ora: costa solo 0.77 euro al giorno, provalo ora!
La realtà è ben diversa. Innanzitutto questi capitali sono stati in massima parte usati per rimettere in funzione i mercati finanziari. Una parte delle perdite delle banche sono state socializzate, ossia sono ora addebitate ai contribuenti. Solo un’esigua quota della liquidità creata dalle banche centrali è stata direttamente usata per rilanciare l’economia reale. Non sorprende quindi che non vi siano chiari segnali di ripresa e che molti economisti temano che, esaurito l’effetto di queste misure straordinarie, l’economia possa ricadere in recessione.
Questo timore è particolarmente diffuso negli Stati Uniti, come attestano i verbali dell’ultima riunione del Comitato direttivo della Federal Reserve, ed è avvertito soprattutto dai mercati dei cambi. La debolezza del dollaro e della sterlina può essere considerata un indicatore della convinzione che la stabilizzazione dell’attività economica degli ultimi mesi è molto fragile e che Washington e Londra continueranno a stampare moneta (come del resto hanno confermato) per tentare di rilanciare le loro economie.
E proprio in quest’ottica il deprezzamento di dollaro e sterlina è stato almeno finora assecondato dalle stesse autorità americane e britanniche e non osteggiato da Europa e Giappone (solo recentemente la Banca centrale europea ha dichiarato di temere il rialzo del valore dell’euro). Ad essere preoccupati appaiono solo alcuni Paesi del Sud-Est asiatico, che paventano di veder strangolata la propria industria di esportazione dal calo del dollaro, che comporta automaticamente anche un ribasso della valuta cinese.
I vantaggi per gli Stati Uniti del deprezzamento del dollaro non sono evidenti. La maggiore competitività dei prodotti e dei servizi americani sui mercati esteri è largamente minata dall’aumento del prezzo delle materie prime e soprattutto del petrolio e di tutti quei beni che gli Stati Uniti non producono più. Tutto ciò riduce il potere d’acquisto delle famiglie americane e rende più problematica una ripresa dei consumi. La politica del dollaro debole rappresenta un vantaggio solo se l’obiettivo della politica monetaria americana è far risorgere l’inflazione che avrebbe la virtù taumaturgica di ridurre l’ammontare del debito detenuto da famiglie, imprese e Stato federale.
Finora questo timore non è nemmeno lontanamente intravvisto dai mercati dei capitali, che sono i più sensibili alle aspettative inflazionistiche. Ma se i segnali di ripresa dovessero cominciare ad essere credibili, è prevedibile che immediatamente salirebbero i tassi di interesse, soprattutto quelli a medio e a lungo termine.
Si può dunque sostenere che la debolezza del dollaro sia una spia di un’economia americana in condizioni ancora molto precarie, che non ha assolutamente superato la crisi e che anzi continua ad avere bisogno di continui interventi governativi per non ricadere in recessione.
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