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(WSI) –
Cho Seung-Hui ha centrato in pieno
il suo obiettivo. Che non era tanto
quello di massacrare i suoi compagni
di corso del Politecnico della Virginia,
quanto piuttosto di diventare un’icona
globale, com’era accaduto, alcuni
anni fa, agli autori della strage di Columbine.
Una settimana fa era uno
studente frustrato e sconosciuto, condannato
ad una vita di oscura emarginazione.
Oggi, centinaia di milioni di
persone in tutto il mondo riconoscono
il suo volto. Lo hanno visto nella
posizione favorita dei protagonisti dei
film di John Woo, mentre imbraccia le
due pistole semi-automatiche con le
quali avrebbe trucidato 32 persone.
Lo hanno ascoltato paragonarsi a Gesù
Cristo in nome di tutte le vittime
del bullismo scolastico. Grazie a lui,
negli Stati Uniti, editorialisti, riaprono
dibattiti sulla cultura americana,
sull’immigrazione, sulla circolazione
delle armi. In Francia, nel frattempo,
scrittori di fama come Jonathan Littel,
vincitore del premio Goncourt di
quest’anno, si interrogano sulla qualità
letteraria dei suoi testi.
E c’è da star certi, che in qualche
piccola stanza tappezzata di poster
di una periferia americana senza nome,
ci sono dei ragazzi che guardano
a lui con invidia e con ammirazione.
E che già cominciano a interrogarsi
sul modo di fare ancora di meglio,
ancora di più.
Ha fatto bene, insomma, il giovane
psicopatico coreano a interrompere
il massacro per spedire il suo pacchettino
alla Nbc. Filmati, fotografie,
testi scritti: Cho è il primo stragista
multimediale della storia. E la sua impresa
segna un punto di non ritorno.
Ci riflettano i moralisti pret-apenser
che stigmatizzano i video prodotti
dagli adolescenti delle nostre
scuole. Checché ne dicano i tromboni
dell’indignazione a comando, la violenza,
gli abusi, la prepotenza hanno
sempre fatto parte del mondo della
scuola. Un mondo spietato e primordiale
nel quale, da sempre, i deboli
soccombono sotto i colpi dei bulli.
Chi nega questa verità elementare ha,
evidentemente, della propria scolarità,
un ricordo molto sfocato.
Il vero dato nuovo è il narcisismo
tecnologico: l’esigenza di immortalare
in ogni momento le proprie gesta su
un qualche tipo di supporto multimediale.
È un narcisismo che pervade
per intero la generazione dei più giovani
e che va dall’innocente costruzione
del proprio sito su My Space al
pacchetto multimediale di Cho
Seung-Hui. Siamo entrati nell’era dell’esibizionismo
di massa, nella quale
l’imperativo categorico di ogni individuo
è quello di attirare su di sé l’attenzione
degli altri. Sotto questo profilo
la violenza è uno strumento come
gli altri che ha il vantaggio di essere
estremamente fotogenico. Non è un
caso, mi pare, se tra le prime registrazioni
di Thomas Edison ci sono scene
di violenza: un’intervista
a un serial
killer, la ricostruzione
della Bloody Mary, regina di Scozia.
Ha detto bene Abel Ferrara: «La violenza
sta al cinema come la mostarda
all’hot-dog».
Non c’è nulla di nuovo, nella violenza.
Quel che è nuovo è la funzione
assunta dalla tecnologia nel diffonderla.
Fino a quando la possibilità di
produrre immagini richiedeva grandi
mezzi ed era riservata a pochi, il virus
era sotto controllo. Ma oggi, internet,
le videocamere digitali e i cellulari
hanno aperto il vaso di Pandora. I
nuovi media non sono un semplice
supporto per la trasmissione di informazioni,
bensì gli agenti di contagio
del virus narcisista. In quanto tali, assai
più delle armi liberamente vendute
negli Stati Uniti o delle bombe dei
terroristi, sono diventati la vera arma
di distruzione di massa del nostro
tempo.