(WSI) – Da quasi 80 anni, cioè almeno da quando nel 1927 Werner Heisenberg introdusse il principio di indeterminazione, la matematica è un’opinione. E persino quel qualunquista di Trilussa con la sua teoria del pollo, pur non sapendo nulla della meccanica quantistica, l’aveva indovinato. Ieri il balletto delle cifre e delle interpretazioni sulla produzione industriale, quindi sulla salute dell’economia, ha raggiunto livelli che nemmeno il grande fisico tedesco avrebbe mai immaginato.
In mattinata, l’Istat pubblica i dati sulla produzione industriale di luglio: 0,4% in più rispetto a giugno e 3,7% in meno rispetto allo stesso mese del 2003. Siccome però nel luglio di quest’anno si è lavorato un giorno in meno, le cifre corrette mostrano un meno 1,2% su base annua.
Il crollo peggiore riguarda i beni di consumo: -2,7%; quelli non durevoli sono caduti del 3,1%, quelli durevoli dell’1,4%. Un vero tracollo per i prodotti tipici del made in Italy come pelli e calzature (-11,4%). La produzione italiana di autovetture (quindi Fiat) è cresciuta in luglio dell’1,1%, ma nei primi sette mesi dell’anno è precipitata del 13,5%. Così l’Istat.
Siccome il principio di Heisenberg sostiene che la precisione dipende dallo strumento di misura, l’Isae nel pomeriggio diffonde i suoi dati. E prevede una produzione piatta ad agosto (crescita zero), un minimo 0,3% in più a settembre e stima uno 0,8% in più ad ottobre. Insomma, l’Isae non può negare che l’Istat abbia ragione per il pasato, ma divinando il futuro le cose non sono così nere.
Tuttavia, il presidente dell’Isae, Alberto Majocchi, si dichiara moderatamente ottimista e mantiene la previsione di una crescita del pil dell’1,3% per fine anno. «La ripresa c’è, ma non è ancora consolidata», dichiara. Gli fa eco il ministro delle attività produttive secondo il quale i dati diffusi ieri sono positivi soprattutto se associati a un significativo segnale di ripresa dell’export e degli investimenti. Esiste un problema di consumi, ma per l’economista Antonio Marzano, «questo fenomeno è un dato strutturale: quando la società invecchia gli anziani consumano meno».
Luca di Montezemolo non è convinto. «Il paese è fermo – taglia corto il presidente della Confindustria – E questo ci preoccupa più di qualsiasi altro problema». Montezemolo invita governo, sindacati, imprese e banche a dare «un’attenzione straordinaria all’economia».
E aggiunge: «Questo paese ha bisogno di recuperare i livelli di produzione industriale che si addicono a un paese che produce». Gli dà ragione Enrico Letta: «Non è vero, come qualcuno ha lasciato intendere nelle scorse settimane, che anche in Italia la ripresa era in atto. In realtà, non si vede ancora la luce in fondo al tunnel e senza una svolta di politica economica l’Italia potrà solo tirare a campare».
E Pierluigi Bersani accusa il governo di «continuare ad ignorare il problema industriale: «Dall’inizio dell’anno non ci siamo mossi e siamo ancora due punti e mezzo sotto la produzione dell’anno 2000». I sindacati si allarmano, ma continuano a litigare. Savino Pezzotta lancia un messaggio a Guglielmo Epifani insistendo sulla revisione del sistema contrattuale vigente.
Carla Cantone, della Cgil, gli risponde che «invece di individuare nella nuova modellistica contrattuale la ricetta per risolvere tutti i problemi, sarebbe opportuno affrontare la grave crisi produttiva e occupazionale». Sulla lotta alla recessione, insomma, non spira un vento bipartisan.
Silenzioso, Domenico Siniscalco riceve sulla scrivania che fu di Quintino Sella (e di Giulio Tremonti), i desiderata dei ministri ai quali ha concesso un aumento delle spese del 2%, ma che non sono affatto contenti. Mazzella si preoccupa dei contratti del pubblico impiego: i sindacati sono sul piede di guerra e Silvio Berlusconi in persona ha promesso loro degli adeguamenti (senza sbilanciarsi sulle cifre, in verità). Gianfranco Fini ieri ha colto la palla al balzo per dichiarare che nel caso del pubblico impiego si può fare eccezione al tetto del 2%. Con una eccezione la regola non cambia, ma in realtà, una volta rotta la diga le eccezioni si moltiplicano.
Persino Marzano vuole 2 miliardi (per rifinanziare gli incentivi alle aree svantaggiate). E oggi ne discuterà faccia a faccia con Siniscalco. Sirchia si accontenta di alcune centinaia di milioni. Letizia Moratti si preoccupa (giustamente) che la scuola non resti il fanalino di coda, dopo che tutti proclamano che la risorsa chiave della ripresa è l’investimento in capitale umano. Maroni vuole l’esclusiva sulle politiche del welfare e boccia le proposte del Tesoro.
Ieri in via XX Settembre sono cominciate le geremiadi delle regioni le quali hanno chiesto per il fondo sanitario tra i 91 e i 92 miliardi, dieci in più rispetto allo scorso anno. All’obiezione che si sfonda il tetto del 2%, la risposta è che la cifra prevista dal governo è sottostimata di almeno 5 miliardi. Nulla del genere accade nella stanza del Cancelliere dello Scacchiere. L’essenza del metodo britannico è che il budget è contenuto in una valigetta che si apre solo davanti a Westminster. Il mercanteggiamento non migliora, al contrario, i problemi denunciati dalle cifre Istat (sia pur con le correzioni dell’Isae). L’economia ha bisogno di una vera scossa. Ma ormai sembra che manchino il tempo e l’energia, le due variabili più indeterminate nell’universo quantistico (e in quello politico).
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