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ARMANI: UN IMPERO DA 3,5 MILIARDI
DI EURO

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Giorgio Armani fa sapere di non aver null’altro da dire sulla sua successione. Dopo aver sostenuto che per il futuro della sua azienda è meglio la vendita a un grande gruppo piuttosto che la quotazione in Borsa, in via Borgonuovo a Milano, sede della casa di moda, spiegano che non c’è altro da dire e, soprattutto, che non c’è niente di nuovo in vista. Ma le illazioni (e gli interessi) si sono rimessi in moto, spinti soprattutto dal fatto che lo stilista-imprenditore ha compiuto 70 anni lo scorso 11 luglio.

Quanto può valere Armani? A grandi linee, 3 miliardi di euro. Colloca il valore a questa soglia Giovanni Mannucci, responsabile moda e lusso di Deloitte Consulting, mentre è un po’ più alta (fino a 3,5 miliardi di euro) la stima di Paola Durante, analista del settore lusso di Merrill Lynch. L’arco è, dunque, quello di un competitor come Prada che due anni fa, al momento della quotazione, poi rinviata, era stato valutato appunto 3 miliardi.

Prendendo in esame alcuni dei principali titoli del lusso quotati e paragonabili ad Armani, il valore del gruppo di via Borgonuovo si colloca esattamente tra un minimo di 2,7 e un massimo di 3,4 miliardi di euro. Nella tabella pubblicata si vedono i multipli che indicano il valore di ogni singola azienda e dai quali deriva un valore medio di 2,6-2,7 volte le vendite e di 10,5-12,1 volte l’Ebitda, il margine operativo lordo. Applicandoli ai numeri 2003 di Armani (vendite pari 1,25 miliardi, Ebitda per 257 milioni) deriva il valore indicato.

Elementi che concorrono alla valutazione sono, poi, i punti di forza del marchio milanese. Andrea Ciccoli, vice presidente di Bain Company, ne evidenzia tre. In primo luogo, il fatto che Armani è, nell’abbigliamento, uno dei pochissimi che possono vantare dimensioni, posizionamento globale e storicità. In secondo luogo, la società milanese sa coniugare fashion e classicità, riuscendo così a essere non troppo legata ai trend del momento.

Infine, Armani ha avviato da molto tempo il processo di diversificazione, tanto che alcuni di questi prodotti (esempio, occhiali e profumi) sono ormai marchi storici, mentre altri (come la casa e gli alberghi) hanno ancora potenzialità di crescita. Giudizio in buona parte condiviso da Paola Durante di Merrill Lynch che parla di un «brand globale, forte e già sviluppato in diversi settori», anche se l’analista ricorda che l’abbigliamento è più sensibile alla componente moda rispetto, per esempio, alla pelletteria.

E i punti di debolezza? Si possono riassumere con questa risposta data dallo stilista-imprenditore martedì quando, parlando dell’ipotetica cessione, ha detto: «Sono sincero: non sarei in grado di gestire l’azienda con qualcuno accanto. Io sono abituato a ricordare ai miei manager che il padrone sono io». Parole che mettono in evidenza due criticità: la prima è cosa sarà della Giorgio Armani senza la persona che ne incarna l’essenza; la seconda sarà verificare la solidità di una struttura manageriale abituata ad avere un padre-padrone.

Stabilito un arco di valore, bisogna vedere quali gruppi potrebbero essere in grado fare l’acquisizione. Pochi e, secondo chi osserva il mercato, stranieri. «In Italia – dice Giovanni Mannucci – non ci sono aziende in grado di sostenere un’operazione come questa. Una fusione con Marzotto, per esempio, avrebbe un senso solo per Marzotto, perché la società di Valdagno ridurrebbe il suo debito, acquisirebbe quote di mercato e distribuzione, oltre a efficienza industriale nello sportswear. Ma non la vedo interessante per Armani. A mio parere l’acquirente dev’essere essere per forza straniero. Francese. O qualche americano, come Limited o Liz Claiborne, che hanno leva finanziaria e struttura adatta».
I gruppi italiani di grandi dimensioni sono pochissimi. Oltre a Marzotto, Prada, Max Mara, Benetton, Luxottica.

Ma, per esempio, con Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, non c’è più dialogo dopo che Armani ha ritirato la licenza per gli occhiali (passata a Safilo), pur essendo rimasto nel capitale della società di Agordo.

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