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ARMAGEDDON NEWS: LE BANCHE CENTRALI HANNO GIA’ POMPATO $7 TRILIONI, MA ANCORA NON BASTA

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*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – La crisi del credito sta di nuovo assumendo caratteri virulenti. A scuotere la già scarsa fiducia dei mercati sono state le cattive notizie provenienti dall’American Insurance Group (AIG) e da Fannie Mae, a conferma del fatto che i soldi finora stanziati dallo Stato federale americano per salvare queste due società sono insufficienti.

Nel caso di AIG si passa dagli 85 miliardi già concessi per evitarne il collasso a un piano dal costo complessivo di 150 miliardi di dollari. Per Fannie Mae non vi sono ancora cifre precise, ma l’agenzia parastale americana, annunciando una perdita trimestrale di 29 miliardi di dollari, ha contemporaneamente avvertito di essere destinata al fallimento se il governo non investirà nuovi fondi. La musica non è molto diversa per società storiche, come la General Motors, che chiede un rapido aiuto dello Stato, poiché entro la fine dell’anno sarà a corto di liquidità.

Queste comunicazioni hanno evidenziato che gli interventi finora predisposti da banche centrali e governi sono stati utili, ma ancora insufficienti per allentare la morsa della pesantissima crisi che oramai non colpisce più solo il settore finanziario, ma anche l’economia reale.

Il ribasso dei tassi di interesse e la nazionalizzazione di fatto del mercato interbancario e di quello monetario hanno finora indubbiamente prodotto un calo dei tassi a breve termine, ma non hanno ancora ottenuto il risultato di riportare fiducia e un ritorno alla normalità. Hanno solo spostato l’epicentro della crisi.

Il calo dei tassi a breve era scontato vista l’entità degli interventi: stando al Financial Stability Report della Bank of England, le banche centrali hanno emesso in queste settimane 7.000 miliardi di dollari in prestiti, acquisti di titoli e garanzie fornite al settore finanziario. Si tratta di una cifra enorme, che ha portato ad un calo dei tassi a breve termine pressoché in linea con le diminuzioni del costo del denaro decise dagli istituti di emissione.

La fiducia tra le stesse banche non è comunque tornata, come dimostra il fatto che lo scorso 31 ottobre i depositi degli istituti europei presso la Banca centrale europea hanno raggiunto il massimo storico di 280 miliardi di euro.

Questa sfiducia è del resto giustificata. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che le perdite del settore finanziario si aggireranno sui 1’400 miliardi di dollari. Ciò vuol dire che vi sono ancora da ammortizzare 600 miliardi di dollari. Da parte sua, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha dichiarato che le perdite delle sole banche europee ammonteranno a 800 miliardi di euro.

Queste cifre dovranno molto probabilmente essere corrette al rialzo, poiché la crisi del credito funziona come indicano i libri di testo. Produce una crisi economica, poiché le banche stringono i cordoni della loro politica creditizia. La frenata dell’economia reale trasforma i prestiti concessi alle imprese, che vedono crollare le loro vendite e i loro guadagni, in crediti a rischio.

A questo punto le banche stringono ulteriormente i cordoni della borsa, mettendo a repentaglio il normale svolgimento dell’attività economica e contribuendo a frenare l’economia. E quindi il circolo vizioso continua ed anzi assume sempre maggiore rapidità. Ed è quanto sta succedendo, come dimostrano le difficoltà delle imprese a finanziarsi a breve termine e la contrazione del credito documentario (uno strumento fondamentale per il commercio internazionale), ecc.

Questo circolo vizioso, avviato con le perdite prodotte dagli strumenti finanziari collegati al mercato immobiliare americano, è molto difficile da rompere. Gli interventi delle banche centrali hanno prodotto una parziale riapertura della possibilità di banche ed imprese di finanziarsi a breve, ma non sono riusciti a riaprire il mercato dei capitali, ossia la possibilità degli istituti di credito e delle imprese di finanziarsi a lungo termine a prezzi ragionevoli.

La conseguenza è che la nuova linea del fronte di questa crisi è diventato proprio il mercato dei capitali. Infatti sia le banche sia le imprese hanno ritardato l’emissione di nuove obbligazioni a lungo termine, contando su un ritorno alla normalità. Ora si ritrovano con l’impellente necessità di approvvigionarsi di nuovi capitali anche per rinnovare il volume ingente di obbligazioni che giungono a scadenza nei prossimi mesi.

Tutto ciò ha conseguenze devastanti. Una stabilizzazione del mercato immobiliare americano è inimmaginabile, se i tassi ipotecari continuano a rimanere al di sopra del 6%, nonostante la Federal Reserve abbia ridotto i tassi dal 5,25% all’1%. Gli attuali tassi ipotecari americani sono addirittura superiori a quelli di un anno fa, ossia al periodo in cui scoppiò la crisi dei subprime.

E’ pure difficile immaginare come possano finanziarsi le imprese di settori che per loro natura devono fare ampio ricorso al credito. Ad esempio, in questo quarto trimestre giungono a scadenza più di 200 miliardi di dollari di obbligazioni delle società di telecomunicazione. Ed è soprattutto difficile capire come si rifinanzierà a lungo termine il settore finanziario che continua a veder crescere le sofferenze legate agli strumenti della nuova ingegneria finanziaria e che presto dovrà fare i conti con un numero crescente di sofferenze dovute alla recessione.

Ma c’è di più. La crisi è destinata a far traballare anche il debito di alcuni Paesi emergenti, come quelli dell’Europa dell’Est che sono pesantemente indebitati con l’estero.

Di fronte a questa spirale bisogna chiedersi se è possibile il salvataggio dell’intero sistema finanziario oppure se non è preferibile salvare alcuni istituti o parti di essi e privilegiare gli aiuti all’economia reale. Questa domanda è fondamentale, poiché gli interventi statali dissanguano le casse degli Stati e sono destinati a mettere in discussione anche la credibilità degli stessi titoli pubblici. A meno che qualcuno pensi già ad un grande incendio inflazionistico grazie al quale bruciare i debiti e soprattutto l’enorme quantità di carta straccia prodotta dal sistema finanziario, diretto da manager irresponsabili.

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