* Antonio Cesarano e’ il responsabile dell’ufficio ricerca MPS Finance. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – E’ da poco iniziato il secondo semestre che concretamente si inaugura oggi dopo il ponte lungo Usa e con la presenza di tutti i principali players sui mercati internazionali.
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Proviamo a ricostruire ex post quanto accaduto nel semestre appena conclusosi, la cui dinamica a sua volta in gran parte è la prosecuzione di un complesso di fattori che hanno cominciato a manifestarsi già nel corso del 2004 e che sono divenuti più evidenti nel momento in cui, pur essendo iniziata la fase di rialzo dei tassi della Fed, è continuato il trend calante dei tassi di mercato dando luogo all’ormai celebre “conundrum” evocato da Greenspan a febbraio.
Schematicamente la sequenza logica della interazione dei fattori prima menzionati può essere così sintetizzata:
1) la lunga fase di politica monetaria espansiva inaugurata dalla Fed e dalla Bce a partire dalla metà del 2001 fino a toccare l’apice a metà del 2003, ha prodotto come conseguenza un’enorme massa di liquidità alla ricerca di rendimenti addizionali rispetto a quanto offerto dai titoli governativi che nel frattempo hanno continuato a seguire un trend calante;
2) contemporaneamente sono divenuti sempre più rilevanti nel quadro finanziario internazionale investitori come le banche centrali asiatiche che hanno dimostrato di seguire logiche diverse da quelle tipiche dei gestori del risparmio gestito, essendo ispirate a considerazioni politco/strategiche nella gestione delle enormi masse di riserve accumulate dalla fine degli anni ’90, piuttosto che a criteri più strettamente inerenti le performance di portafoglio. La lunga fase di deprezzamento del Dollaro pertanto non ha intaccato in modo rilevante la preferenza verso i Treasuries Usa che hanno beneficiato di un flusso costante e copioso di domanda estera fino ad arrivare alla situazione attuale in cui circa la metà del debito pubblico Usa è in mano a investitori esteri;
3) altra novità di rilevo è stata rappresentata dall’affermarsi di nuovi criteri di gestione del portafoglio da parte soprattutto dei fondi pensione Usa che gradualmente hanno cominciato a ribilanciare i proprio portafogli spostando la preferenza verso gli asset obbligazionari rispetto a quelli azionari. Questa nuova filosofia di gestione è figlia probabilmente di due fattori principali:
a) le cocenti perdite subite dopo lo sgonfiamento della bolla azionaria a partire dal 2000; b) la presa d’atto di una profonda mutazione della dinamica demografica tale da comportare l’esigenza di gestire flussi di risparmio con finalità prettamente previdenziali. In sostanza si prende atto del fatto che la popolazione nei principali paesi sta invecchiando (finisce ad es. negli Usa il periodo dei baby-boomers che ora sono in prossimità del pensionamento) e che quindi in futuro sarà maggiore la quota di reddito destinata a scopo ad esempio sanitario vs. quella destinata in precedenza a beni di consumo di massa.
Di conseguenza i rendimenti attesi dal mercato azionario diventano inferiori rispetto al passato vista la minore propensione marginale al consumo attesa a causa del processo di invecchiamento stesso. In questo contesto allora i gestori Usa riscoprono il mercato obbligazionario che negli anni ’90 era invece divenuto un corollario nei portafogli dei fondi pensione dove la netta prevalenza era invece assegnata al comparto azionario;
Sinteticamente i fattori finora esposti possono essere sintetizzati come: 1) ampia liquidità come effetto della lunga fase di politica monetaria espansiva; 2) presenza di nuove tipologie di investitori e filosofie di gestione di portafoglio tali da aumentare in modo molto forte la domanda di bond.
Tali fattori hanno generato un perdurante trend calante dei tassi che non è stato affatto scalfito dall’inzio della fase di rimozione dell’accomodamento monetario iniziato dalla Fed nel mese di giugno 2004. Tale andamento ha finito a sua volta per supportare il settore immobiliare su cui gradualmente si è innestata una nuova potenziale bolla. Greenspan per ora ha negato di trovarsi di fronte ad una situazione di questo tipo preferendo piuttosto parlare di surriscaldamento dei prezzi immobiliari confinato solo a singole aree piuttosto che trattarsi di un fenomeno diffuso.
Anche in Europa i prezzi delle case ne hanno beneficiato. Se si osservano gli indici di settore pubblicati dall’Economist si scopre ad esempio che in Europa nell’ultimo anno, ad eccezione della Germania, i prezzi immobiliari hanno registrato incrementi spesso a due cifre (Spagna + 15,5%, Francia +15%, Italia +9,7%) paragonabili a quanto verificatosi negli Usa (+12,5%) nello stesso periodo di tempo.
A parità di rialzo dei prezzi delle case negli Usa ed in gran parte dell’Europa, gli effetti sui consumi sono stati però nettamente differenti, risultando determinanti per la crescita Usa e del tutto irrilevanti in Europa. La ragione risiede nel fatto che in Europa il mercato dei mutui immobiliari non è strutturato come quello Usa dove risulta molto più semplice estrarre valore per i consumatori anche dal rialzo del prezzo della sola prima casa. Basti pensare alle rinegoziazioni dei mutui a tasso fisso (possibili anche grazie all’esistenza delle GSE come Fannie Mae e Freddie Mac), alla possibilità di liquidare mediante mutui gli incrementi di valore dell’immobile, alla diffusione (fin troppo marcata al punto da allarmare la stessa Fed) di forme di mutui strutturati (i c.d. ARM, Adjustable Rate Mortgages) che consentono di abbattere il peso della rata nei primi anni di vita del mutuo per consentire l’acquisto di immobili a prezzi anche molto più elevati rispetto al passato.
Greenspan si è trovato così di fronte ad un fenomeno del tutto imprevisto quale appunto il rialzo dei prezzi delle case. Il fenomeno era inatteso in quanto il capo della Fed immaginava che ad un rialzo dei tassi della Fed avesse fatto seguito un comportamento analogo dei tassi di mercato. Greenspan si era anzi preoccupato di evitare che il rialzo fosse troppo brusco ribadendo esplicitamente nel comunicato successivo ad ogni riunione che l’approccio adottato sarebbe stato “misurato”.
Di conseguenza, il vecchio capo della Fed si è trovato di fronte ad un’economia in cui il settore immobiliare sta rappresentando uno dei motivi di sostegno principali per i consumi al punto da sostituirsi al supporto in precedenza offerto dalla politica fiscale espansiva. Di conseguenza occorre fare molta attenzione a porre in essere provvedimenti tali da innescare un ridimensionamento brusco dei prezzi delle case stesse, pena un impatto marcato anche sui consumi. Forse anche per tale ragione Greenspan evita di parlare di bolla immobiliare, pur essendovi diversi elementi per lasciare immaginare una tale possibilità.
Diventa pertanto estremamente complesso il percorso che la Fed dovrà seguire nella gestione di politica monetaria onde evitare che il delicato equilibrio su cui l’economia al momento si regge possa essere compromesso. La scelta per ora è semplicemente quella di continuare con l’approccio graduale, sperando che poco alla volta anche i tassi di mercato seguano un sentiero rialzista altrettanto graduale.
In realtà però , oltre alla Fed, il vero fulcro della situazione macro attuale risiede nella continuazione del forte flusso di acquisti di fonte asiatica che consente per ora anche di porre in secondo piano il problema del deficit di partite correnti che nel frattempo non ha accennato a diminuire raggiungendo il non invidiabile livello di 6,4% del PIl.
Fin qui abbiamo provato a ricostruire lo status quo che aiuta almeno a comprendere il delicato compito che spetta alla Fed. In realtà, come spiegato anche da Greenspan in interventi successivi a quello di febbraio, stanno probabilmente cambiando soprattutto i players protagonisti della partita dei tassi.
I gestori insieme agli stessi hedge funds hanno spesso orientato le proprie scelte di investimento sulla base dell’attesa di una fase di rialzo dei tassi conseguente ad un recupero dell’economia, ritrovandosi nettamente spiazzati.
Ammettiamo che in passato, trovandoci di fronte alla necessità di formulare previsioni sull’andamento dei tassi, il focus sul solo andamento macro è stato anche per noi talora fuorviante, almeno negli Usa perché nel frattempo la situazione europea lasciava invece ipotizzare la possibilità di mantenimento dei tassi fermi, visto il basso livello di crescita e le continue revisioni al ribasso delle stime per il 2005.
Veniamo all’arduo compito di provare ad ipotizzare cosa potrebbe ora accadere sul fronte tassi. Premettiamo che al momento non riteniamo che le forze in gioco prima evidenziate abbiano dispiegato in modo completo il loro effetto. Il processo di ribilanciamento dei fondi pensione, la presenza di investitori come le banche centrali, verosimilmente manterrà ancora aperto il “conundrum sui tassi”.
Inoltre a ciò si aggiunga la necessità da parte della Fed di evitare che i prezzi immobiliari possano bruscamente risentire di rapide accelerazioni al rialzo dei tassi di riferimento. Di conseguenza almeno fino ad agosto la Fed rimane orientata ad un approccio graduale. Nell’ipotesi di un rallentamento dell’economia che ancora non è del tutto da escludere, rimarrebbe ancora aperta la possibilità di una fase di arresto nel processo di rialzo dei tassi che pertanto chiuderebbero l’anno al 3,5%.
In Europa inoltre la Bce probabilmente manterrà i tassi fermi al 2% per tutto l’anno. Insomma diversi fattori depongono ancora a favore di politiche monetarie che difficilmente dovrebbero determinare un rientro dell’ampia liquidità in circolazione alla ricerca forsennata di investimenti profittevoli.
Infine i gestori che da oltre un anno hanno cercato di difendersi dal temuto rialzo dei tassi mantenendo profili di duration di portafoglio piuttosto contenuti rispetto ai benchmark di riferimento, si trovano ora nella necessità di procedere a graduali allungamenti di tale parametro privilegiando pertanto i segmenti più a lungo termine della curva.
In tale contesto, laddove dovesse materializzarsi un rallentamento dell’economia Usa nel secondo trimestre, si tratterebbe di un elemento che si aggiungerebbe ad un clima sui tassi già surriscaldato per altri fattori estranei a considerazioni prettamente macro.
In ogni caso, il primo semestre dell’anno ha educato gli investitori a non immaginare gli sviluppi futuri dei tassi solo in base al quadro macro ipotizzato ma anche tenendo conto del mutato quadro dei players in azione.
Sul tratto lungo della curva pertanto l’eventuale rialzo dei tassi decennali (innescato in settimana ad esempio anche grazie a favorevoli attese sui non farm payrolls di venerdì soprattutto laddove l’indice Ism non manifatturiero supportasse tale ottimismo) potrebbe incontrare livelli di resistenza molto vicini situati tra 4,15/4,20 sui T-note e tra 3,30/3,35 sul Bund. In prossimità di tali livelli potrebbero tornare gli acquisti dei fund managers che vedrebbero così soddisfatta la necessità di riadeguare i parametri di sensitività dei propri portafogli, attualmente ancora molto scarichi di duration.
La “sete di rendimenti” in sintesi continua ad essere un fattore predominante nelle scelte degli asset allocators che sta spingendo i gestori internazionali anche a valutare l’investimento in titoli di stato nipponici, che al momento risultano essere competitivi rispetto a quelli Usa ed europei se analizzati in termini di tassi reali, come evidenziato anche da un recente articolo del WSJ in cui si segnala un incremento dell’attività su tale comparto da parte di alcune grosse case di investimento internazionali. Un dato per tutti: gli acquisti di titoli di stato nipponici da parte di investment banks straniere sono stati pari al 15,7% del totale emesso nel 2004. Quest’anno lo stesso rapporto calcolato da inizio 2005 è risultato pari al 24,3%.
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