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ALERT PETROLIO: NON SOLO YUKOS E BIN LADEN

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(WSI) – L’ovvia considerazione del ministro del Tesoro Usa John Snow («C’è qualcosa di molto di più della semplice dinamica tra domanda e offerta nelle attuali quotazioni del petrolio»), suggerisce che senza la speculazione sul timore di clamorosi attentati agli impianti produttivi, o quella generata dai regolamenti di conti che Putin sta operando in patria anche a costo di mettere a rischio l’intera produzione della Yukos, il mercato del greggio non sarebbe in fibrillazione.

Facile dargli ragione nel giorno in cui viene ritoccato di nuovo il record del petrolio a New York proprio sull’onda delle notizie del congelamento dei conti correnti del primo produttore russo da parte del ministero della giustizia. Ma ancor più preoccupante dei magistrati russi e dei guerriglieri arabi è proprio la dinamica tra domanda e offerta. La domanda globale di petrolio continua ad aumentare, ma non certo sulla spinta dei soliti clienti: le riserve americane due giorni fa si sono segnalate in crescita, persino del bel mezzo della «driving season»; l’Europa, purtroppo, cresce troppo poco per diventare un consumatore eccessivo.

Le vere novità dal lato della domanda sono dunque i paesi emergenti. La Cina fino al 1994 era un esportatore di greggio, ora importa circa il 30% del suo fabbisogno; la stessa Arabia Saudita nell’ultimo decennio ha visto crescere il consumo interno più velocemente della capacita’ produttiva; in Russia, anche se siamo sotto i livelli di consumo del periodo sovietico, il numero di macchine circolanti cresce del 20% all’anno e i tassi di crescita del pil promettono impennate nei consumi; perfino l’Iran, secondo esportatore arabo, ha ufficialmente dichiarato che si aspetta di diventare un importatore di petrolio nel giro di un decennio (e punta sul nucleare).

A questo nuovo mondo l’attuale industria petrolifera non è riuscita ad adeguarsi, concentrandosi più che altro a ridurre una capacità estrattiva che negli anni ’80 era eccessiva. Ma il blocco d’investimenti di allora costringe le raffinerie americane a lavorare al 97% delle loro capacità per soddisfare la richiesta di benzina (il problema della carenza delle strutture di trasformazione è simile a livello mondiale) e impone al presidente dell’Opec, Purnomo Yusgiantoro, di ammettere che dopo l’ulteriore innalzamento di 2 milioni di barili al giorno, anche il cartello dei produttori avrà finito le cartucce.

Se domani prendessero Bin Laden, oppure Putin e il patron di Yukos, Kodorkhovski, tornassero buoni amici, il prezzo del petrolio scenderebbe, ma l’emergenza non verrebbe meno. Tutto ciò suggerisce che dobbiamo rassegnarci a prezzi alti e che le ondate speculative – quale che sia il pretesto – diventeranno ancora più pesanti di fronte ad un mercato che non ha flessibilità nella domanda e nell’offerta. Con queste premesse quota 50 dollari al barile diventa una scommessa plausibile per molti trader.

Ma il vero problema non sono i picchi di questi giorni o dei prossimi mesi (che comunque zavorreranno l’intera economia mondiale): bisogna ovviare a questa carenza strutturale con investimenti per far diminuire la dipendenza dell’oro nero e affrettare la transizione verso forme di energia, magari più pulite. Saranno necessari anni e migliaia di miliardi, con un’incognita in più: nessun singolo paese, nemmeno gli Stati Uniti possono muoversi da soli. E’ pronto il mondo a fronteggiare la prima sfida veramente globale della sua storia?

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