“Avevo 22 anni quando fui assunto dalla Chase Manhattan Bank: mi ero appena
laureato, a Napoli, in scienze politiche. All’inizio pensavo di fare la
carriera diplomatica”.
Era il 1974. Oggi Federico Imbert, 53 anni, in Italia guida la JPMorgan (che poco più di quattro anni fa si è fusa con la Chase
Manhattan Bank), e dal ponte di comando di una delle più importanti banche
d’affari del mondo si trova spesso al centro dei grandi giochi del capitalismo
italiano.
Dottor Imbert, come andò la sua assunzione alla Chase Manhattan Bank?
Due giorni di interviste con il responsabile della banca per l’Italia. Molte
domande per valutare l’uso della logica più che la conoscenza dell’economia.
Ricordo, per esempio, la richiesta di un commento sul rapporto tra divorzio e
responsabilità. Poi, alla fine, una stretta di mano e un foglio con il conto
del mio primo stipendio.
Quanti soldi erano?
Poco più di quattrocentomila lire nette al mese, se ricordo bene.
La sua prima esperienza di lavoro fu all’estero?
Prima a New York, dove feci un vero e proprio master, e poi a Roma. La Chase
aveva già importanti clienti nell’industria pubblica italiana: Enel, Eni e
Agip.
Il lavoro esplose con la stagione delle privatizzazioni.
Sì, quello fu un momento magico. E anche temerario. Quando accompagnammo
l’Olivetti nella creazione di Omnitel, nessuno poteva immaginare il boom dei
telefonici in Italia.
Voi ci credevate?
Avevamo degli studi che dimostravano le enormi potenzialità della telefonia
mobile. Oggi il 106% degli italiani posseggono un telefonino: in questo Paese
ci sono più cellulari che teste. Quelle analisi, che allora sembravano
esagerate, erano corrette.
Come si lavora con gli americani?
Con un chiodo fisso in testa: il gioco di squadra. Chi non sa lavorare in
gruppo è fuori. Inoltre, per gli americani il cliente è il centro del
mondo.
Davvero il cliente ha sempre ragione?
Quasi. E quando non sei d’accordo con lui, hai il dovere di dirlo.
Molti dicono che le privatizzazioni in Italia siano state un’occasione
perduta.
In che senso?
Nel senso che il club del capitalismo non si è allargato.
Non sono d’accordo. Ci sono grandi gruppi, come Eni ed Enel, che possono
essere considerati delle vere pubblic company e in Italia sono arrivati degli
investitori che soltanto qualche anno fa non avevano una particolare fiducia
nel nostro Paese.
Sono stati privatizzati alcuni monopoli, senza particolari vantaggi per gli
utenti.
La concorrenza è aumentata, come la qualità dei servizi.
Quale capitalismo si vede, in questo Paese, dal vertice della JPMorgan
Italia?
Un capitalismo troppo frammentato, e quindi debole.
Un problema di risorse?
Di una cosa sono sicuro: i soldi per investire in Italia non mancano. Anzi ce
ne sono anche troppi rispetto alle opportunità.
E allora?
C’è un limite culturale. Ciascuno vuole fare il padrone a casa propria, e
talvolta l’imprenditore si identifica con l’azienda per troppo tempo.
Ancora una volta, insomma, l’Italia dei padri-padroni.
L’Italia dove essere imprenditore è uno status, un modo di vivere. Che rende,
comprensibilmente, difficile il necessario passo indietro rispetto alle
necessità dell’azienda.
Come dovrebbe evolvere questo capitalismo?
Per aggregazioni, fusioni e acquisizioni. Cioè attraverso la crescita.
Con quale approdo?
L’industria italiana ha tutte le potenzialità per arrivare a un sistema con
un centinaio di gruppi di medie-grandi dimensioni. Aziende con un fatturato
tra i 500 milioni e il miliardo e mezzo di euro.
A quel punto, il made in
Italy sarebbe imbattibile.
E invece?
Con aziende così piccole è molto difficile, per esempio, avere i necessari
investimenti in tecnologie e in ricerca. Eppure la partita della concorrenza
globale si gioca proprio su questo campo.
Lei, insomma, sta facendo un appello alla vendita delle aziende italiane.
Un appello a crescere, anche attraverso soluzioni creative.
Traduca, per favore.
Aggregarsi attraverso consorzi, in settori dove ciò sia possibile. Per
esempio nelle grandi opere pubbliche, dove gli italiani hanno un ottimo
know-how.
Quali sono i settori dove si possono concentrare le magnifiche cento imprese
italiane?
Meccanica, farmaceutica, largo consumo, edilizia. E finanza.
A proposito di finanza: lei condivide la difesa della proprietà nazionale
delle banche italiane?
Credo soprattutto nella reciprocità e, al momento, nell’Europa delle banche.
Anche se per ora non la vedo ancora molto realizzata.
Cambierà qualcosa con i passaggi generazionali?
Inevitabilmente, credo. Negli Stati Uniti soltanto il 5% delle imprese
familiari riesce a raggiungere la terza generazione. È un dato che dovrebbe
fare riflettere molti imprenditori italiani.
Quante volte ha comprato e venduto la Telecom?
Se si riferisce alle operazioni che abbiamo fatto come advisors nel settore
della telefonia italiana, sono state cinque.
E adesso?
Credo che la Telecom resterà italiana, un pilastro del nostro sistema
industriale.
Nonostante l’altissimo indebitamento?
È in diminuzione e comunque attorno a valori fisiologici rispetto al
cash-flow della società.
Parliamo di Fiat.
Argomento scivoloso…
Si salverà l’azienda?
Ho fiducia nel lavoro degli attuali manager del gruppo. Certo il futuro della
Fiat passa per un’alleanza strategica con altri gruppi internazionali. Da
siglare a tempo debito.
La vostra filosofia è quella di creare ricchezza. Non è troppo poco?
La ricchezza per gli azionisti, i dipendenti, e per la comunità di
riferimento, è il più importante obiettivo che un’azienda deve avere.
Accompagnato sempre da una forte dimensione etica.
In che cosa consiste, concretamente, la dimensione etica?
Evitare conflitti di interesse, a qualsiasi livello, e massima trasparenza. Su
questo la nostra regola è: tolleranza zero. Io non chiudo mai i miei
cassetti.
Quale considera il risultato più importante della sua gestione?
Le maggiori soddisfazioni, in questi anni, le ho avuto dagli uomini prima che
dalle operazioni finanziarie.
Si riferisce ai suoi allievi?
Come le ho detto, per noi è decisivo il lavoro di squadra. E sono contento
di avere assunto tanti ragazzi, ventenni, che oggi sono ancora in questa banca
e formano un gruppo molto compatto. È un risultato che mi rende sereno, e
quindi incide positivamente anche sulla mia qualità della vita, e non
soltanto su quella professionale.
Chase: un colosso presente in 50 paesi con 160 mila dipendenti. Nel mondo, JPMorgan Chase conta su un attivo patrimoniale di più di 1.100
miliardi di dollari, ha 160 mila dipendenti e sedi aperte in più di 50 Paesi.
La società è una delle principali istituzioni finanziarie al mondo: è
leader nel settore dell’investment banking, dell’asset management, del private
banking e dei servizi di custodia e di tesoreria. JPMorgan Chase ha la sede
principale a New York. Presente in tutti i mercati con i marchi JPMorgan,
Chase e Bank One, in tutto il mondo la banca d’affari serve milioni di
clienti e imprese, ma anche le grandi istituzioni finanziarie e i governi,
fornendo servizi di consulenza strategica, di raccolta e collocamento di
capitale. In Italia, JPMorgan è presente da più di 75 anni, con le sedi di
Milano (foto qui sopra) e Roma. La rivista Euromoney le ha riconosciuto la
leadership nel mercato italiano del merger & acquisition nel 2003 e la prima
posizione come «debt house» (cioè advisor nel mercato del debito) negli
anni dal 2001 al 2004.
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