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«L’unica cosa che mi spaventa davvero è che l’intera comunità finanziaria è animata da grande ottimismo, compreso il sottoscritto. È raro che la grande maggioranza di analisti e operatori sia capace a prevedere correttamente la tendenza». David Kotok, numero uno di Cumberland Advisors, stempera la generale visione rosea con l’ironia. Ma non riesce ad andare controcorrente. «Finché l’inflazione e i tassi rimarranno bassi – aggiunge – ci sarà un forte incentivo a detenere titoli azionari piuttosto che obbligazioni governative».
Qual è il potenziale di rialzo della Borsa Usa nel 2007?
Anche il 10-13%, in virtù di una contestuale espansione degli utili e dei multipli, a cui bisogna aggiungere l’ondata di fusioni e acquisizioni.
Negli ultimi anni Wall Street è rimasta attardata per la debolezza del dollaro. Che c’è da aspettarsi per l’anno venturo?
Temo che il trend sia destinato a perdurare. Nel 1998, il mercato azionario statunitense rappresentava il 50% della capitalizzazione globale. Oggi il peso è sceso al 40%, ma si tratta tuttora di una cifra elevata rispetto alla dimensione dell’economia reale.
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Cosa intende dire?
Intendo dire che la produzione nazionale americana è circa il 28% di quella mondiale, sicché la stazza della sua Borsa dovrebbe essere congrua.
Ma se gli Stati Uniti calano, chi ne guadagna?
In primo luogo l’Oriente. Dal 1998 al 2006, i listini asiatici sono passati dal 14,9% della capitalizzazione internazionale al 22,4 per cento. Se prevalesse il consensus, la Cina, l’India, il Vietnam e le altre potenze emergenti dovrebbero mostrare un dinamismo ben maggiore di quello dell’Occidente. L’aumento di valore dei listini ne sarà l’immagine riflessa.
E l’Europa?
L’Europa beneficia di una valuta solida. Investire all’estero può esporre i risparmiatori del Vecchio Continente a una perdita sul cambio.
Si riferisce al biglietto verde?
Certo. Il dollaro reca in sé una notevole fragilità strutturale. Se guarda al grafico, ci si rende conto che dal 2002 al 2004, la valuta era caduta a piombo, rimbalzando un po’ solo nel 2005. Ebbene il 2005 fu un anno speciale. Primo perché i tassi d’interesse a breve termine erano decisamente favorevoli agli asset denominati in dollari. Secondo per una norma speciale che consentiva alle nostre multinazionali di rimpatriare i profitti detenuti all’estero con un forte sconto fiscale. Tutto ciò ha dato le ali al trasferimento di fondi verso gli Usa, un fatto che non si ripeterà nel 2007.
In effetti, il biglietto verde sta cedendo terreno…
Riferisco questo rinnovato indebolimento soprattutto a due cause che vanno di pari passo: l’assottigliamento del differenziale di crescita fra le due sponde dell’Atlantico e l’avvicinamento dei rendimenti obbligazionari. La Fed manterrà stabile il costo del denaro, o attiverà una politica di taglio dei tassi. Per contro, la Bce stringerà le condizioni del credito, alzando il saggio base un altro paio di volte. Ciò avvicina la remunerazione della carta emessa nelle due aree geografiche.
E poi?
La congiuntura statunitense è in frenata, mentre quella europea è in accelerazione. Infine, il deficit delle partite correnti sfiora da noi il 7% del Pil. I fondamentali lasciano presagire un calo della divisa Usa verso 1,40 entro la fine del 2007.
Torniamo a Wall Street. Su cosa sta scommettendo con maggiore convinzione?
Sono fortemente posizionato sull’energia. La Exxon Mobil mi ha dato grandi soddisfazioni. Il management è di prima qualità. Rifiuta di imbarcarsi in campagne d’investimento faraoniche perché sa che non ci sono zone sicure nel mondo dove impiegare coscienziosamente i denari dell’azionista. Le altre major hanno sbattuto la testa in Sud America o in Russia, dove i Governi sono impegnati nella nazionalizzazione dell’industria energetica. La Exxon preferisce restituire gli utili ai propri investitori accordando sostanziosi dividendi e programmando riacquisti massicci di azioni proprie.
Ci dice qualcosa sui titoli del debito americano?
Dovrebbe chiedermi piuttosto di quelli europei, perché sono questi il nuovo centro di gravità del sistema internazionale.
In che senso?
Il mercato del debito americano è più ampio della controparte europea. Tuttavia, se si esclude la fetta che viene trattata solo a livello nazionale per ragioni fiscali o regolamentari, il rapporto si inverte. Ossia sulla piazza mondiale il debito espresso in euro vale il 46% circa del totale, mentre le pendenze in dollari il 38 per cento. Ecco perché i tassi europei iniziano a esercitare un peso maggiore di quelli federali. Ed ecco perché, forse, meritano una leggera preferenza.
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