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WALL STREET: NASDAQ SPECCHIO DELL’AMERICA

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Con i numeri degli indicatori in sovrimpressione, i network televisivi americani hanno trasmesso la chiusura al New York Stock Exhange. A dare il colpo di martello che segna la fine delle contrattazioni, Arthur Levitt, il presidente della Securities and Exchange Commission, con gli occhi visibilmente bagnati di lacrime.

Il responsabile dell’organo di controllo delle borse americane non ha pianto di dolore per i ribassi dei listini. Questa sera Levitt ha dato l’addio ai mercati. Ha annunciato che rimette l’incarico perche’ la nuova amministrazione alla Casa Bianca possa scegliere liberamente il suo successore. E ha preferito lasciare insieme a Bill Clinton, il presidente che al vertice della Sec lo aveva nominato.

Forse Levitt avrebbe meritato un rally per il saluto di congedo, la trasparenza e il rigore per cui i mercati finanziari americani godono di reputazione internazionale li ha difesi e consolidati con determinazione.

Le cose sono andate diversamente e certo era difficile prevedere potessero andare cosi’ male.

Gli indici hanno aperto in picchiata e per tutta la seduta non c’e’ stato un solo segnale capace di far invertire la tendenza, di fermare una raffica indiscriminata di ordini di vendita.

La spirale ribassista sembra viaggiare su un’onda lunga, dopo la decisione della Federal Reserve che ieri non ha abbassato i tassi d’interesse; Wall Street si era proprio convinta che lo avrebbe fatto.

L’ipotesi era spuntata all’improvviso, una voce cosi’, un’indiscrezione come tante, quasi una speranza, anche giustificata dopo un periodo deludente in borsa.

A legittimare la speranza e’ stato l’autorevole Wall Street Journal, che proprio ieri, in prima pagina, citando indiscrezioni provenienti dalla Fed, accreditava l’ipotesi di una immediata riduzione dei tassi, stanti le condizioni dell’economia.

Nonostante i tassi fermi, la relazione della Banca centrale Usa parla di deterioramento e ammette che la frenata della locomotiva Usa potrebbe essere superiore al previsto.

Su queste prospettive, a gettare sale sulle ferite della delusione, molte banche d’affari a Wall Street hanno comunicato di aver rivisto in negativo il rating di importanti societa’.

Per tutta la giornata e’ stato un susseguirsi di pagelle riscritte, con voti abbassati per i migliori nomi dell’industria americana nel settore tecnologico: Cisco Systems, IBM, Hewlett-Packard.

In questa atmosfera, la riunione del consiglio di amministrazione di AT&T, che ha deciso di ridurre il dividendo agli azionisti. Le cattive notizie come le ciliege.

“I mercati sono in preda a una specie di sindrome da utili in questo momento – spiega Francis Gannon – manager di portafoglio con $6 miliardi gestiti presso SunAmerica Asset – le vendite sui tecnologici non si fermeranno sino a quando non ci saranno indicazioni rassicuranti sulle prospettive dell’economia”.

Vediamo i numeri: gli Stati Uniti si portano da una crescita annua del 5% a una stimata fra il 2% e il 2,5%.

Il passaggio puo’ essere considerato brusco, forse il presidente della Fed, Alan Greenspan, quando parlava di ‘atterraggio morbido’ aveva ancora in mente gli Apache A 36 della seconda guerra mondiale, ma aveva pure detto e ripetuto che al 5% la crescita non era sostenibile.

Alan Greenspan e’ un repubblicano, messo a capo della Federal Reserve da Ronald Reagan. Bill Clinton, dopo gli attriti iniziali, lo ha corteggiato perche’ rimanesse al timone della Banca centrale.

I mercati oggi sembrano avere la memoria corta: Greenspan non e’ rimasto al suo posto per meriti politici e il titolo – scherzoso ma non troppo -di ‘Master of the Universe’ se l’e’ guadagnato tenendo gli Stati Uniti e il dollaro al riparo dalla crisi che piombo’ alla fine degli anni ’90, la prima a essere definita globale.

L’aggettivo non e’ sprecato: tra il 1997 e il 1998 il sistema finanziario giapponese si rivela un castello di carte. La pratica rituale di aprirsi il ventre con una spada non e’ piu’ comune nel Sol Levante, ma piu’ di un dirigente delle grandi banche nipponiche esce dal proprio ufficio in cima a un grattacielo di Tokyo passando dalla finestra.

La situazione precipita in Russia, le banche non sono solvibili, a Mosca mancano persino i generi alimentari, e non perche’ sono ritornati i comunisti.

Il contagio, questo il termine allora utilizzato dagli economisti, si estende in America Latina, dal Messico al Brasile.

Il Fondo monetario internazionale, che in teoria avrebbe dovuto prevenire la crisi, si scopre impotente e privo di strumenti adeguati; il fallimento mina in modo irreparabile il suo prestigio istituzionale.

Da quella burrasca, per cui le economie europee hanno pure pagato un prezzo salato, gli Stati Uniti si sono tenuti al riparo, e sono anzi intervenuti a salvataggio nelle aree di crisi. Lo hanno potuto fare soprattutto grazie alla forza del dollaro, protetto come da una diga, opera d’alta ingegneria, che la Federal Reserve vi ha costruito attorno. La locomotiva americana ha potuto continuare a correre perche’ – dietro le quinte – a tenerla sui binari c’e’ stato Alan Greenspan con la sua rigorosa politica sui tassi.

A Washington come a New York, a Yale o a Harvard, persino chi a pelle non lo sopporta e trova la prosa dei suoi interventi incomprensibile, riconosce che Alan Greenspan e’ un mago dei numeri, e che la sua capacita’ interpretativa degli indicatori economici e’ assolutamente fuori dal comune.

Ieri sera il miliardario editore Steve Forbes, che negli Stati Uniti chiamano scherzosamente l’eterno candidato, perche’ si presenta a ogni elezione presidenziale per il partito repubblicano, senza poi riuscire ad arrivare neppure alle primarie, dagli schermi del network televisivo Fox, si e’ lanciato in un’invettiva contro il presidente della Federal Reserve.

Forbes ha detto che Greenspan sara’ anche un grande teorico, ma che non capisce nulla di economia pratica, che e’ stato un errore madornale frenare l’economia con una stretta dell’1,75% nell’arco di un anno e che la vera iattura e’ non poterlo sbattere fuori dalla Federal Reserve, dove in tanti anni si e’ costruito una lobby che gli fa da spalla nei suoi scellerati interventi. “Gli americani devono sapere che nelle prossime settimane decine di migliaia di posti di lavoro saranno perduti e chi si trovera’ disoccupato potra’ ringraziare Greenspan”.

Negli Stati Uniti, come in tutte le democrazie dei paesi industrializzati, vige il principio della totale indipendenza della Banca centrale rispetto al potere legislativo come da quello del governo, un’elementare misura di sicurezza per evitare che la politica ottenga consenso e faccia campagna elettorale con il costo del denaro. L’inflazione e’ una cosa seria, come forse ha insegnato la Germania della Repubblica di Weimar: nel dicembre del 1923 a Berlino un chilo di pane costava 399 miliardi di marchi e, rispetto a quanto sarebbe accaduto piu’ tardi, era solo un male minore.

Forbes, che e’ miliardario (in dollari), come molti ricchi e’ un originale, e in fondo puo’ dire cio’ che vuole senza conseguenze. Gli Stati Uniti sono il paese piu’ prospero del mondo e Alan Greenspan – godendo di buona salute – lascera’ la guida della Federal Reserve prima del 2003, data di scadenza del mandato, solo se gli garbera’.

Un interrogativo rimane in campo.

La seduta drammatica che si e’ conclusa questa sera a Wall Street, ha bruciato miliardi di dollari in capitalizzazione di mercato. La bolla speculativa ha fatto ‘puff’, della sopravvalutazione dei titoli tecologici si e’ consumata vendetta, il prezzo dei titoli e’ stato adeguato alle prospettive di una crescita economica che dal prossimo anno sara’ senza dubbio piu’ lenta. I profit warning e i tagli ai rating che piovono da aziende e banche d’affari hanno spinto gli investitori sull’orlo di una crisi di nervi.

Tutto vero ma non abbastanza a giustificare il fatto che il Nasdaq abbia chiuso appena al di sopra dei 2.300 punti, dimezzato rispetto ai massimi di marzo. La reazione degli investitori e’ stata spropositata. Lo dicono la maggior parte degli analisti delle piu’ importanti banche d’affari, i piu’ navigati operatori di borsa, quelli che si sono fatti le ossa con l’Orso e non con le sedute un rialzo dopo l’altro, e i professori di economia che hanno messo i soldi nella casa al mare a Long Island e hanno il portafoglio in tasca e non appeso ai destini di Wall Street.

“C’e’ una componente emozionale che spinge le borse in ribasso – spiega Philip Dow, direttore delle strategie di Dain Rauscher Wessels – Gli investitori hanno bisogno di segnali incoraggianti, chiedono di vedere qualcosa. Qualsiasi cosa che possa sembrare positiva. Non mi sento di biasimarli, e’ stato un anno che ha lasciato il segno”.

C’e’ un altro elemento che’ entrato in campo sui mercati: la veemenza e l’asprezza con cui si confrontano le opinioni, si discute dei destini dell’economia, dell’operato di Greenspan o del settore a fibre ottiche.

Non era mai accaduto che di politica monetaria si parlasse come di ”O i tassi o la morte”.

Oggi George W. Bush, il presidente eletto, ha scelto il suo ministro del Tesoro, si tratta di Paul O’Neill il numero uno di Alcoa, il primo gruppo mondiale nel settore dell’alluminio. Un uomo sulle cui capacita’ manageriali non e’ dato nutrire dubbi.

Sono le parole con cui da Austin, capitale del Texas, Bush lo ha presentato alla nazione che suonano fuori dalle righe e che non hanno mancato di essere ascoltate sui mercati.

”La nostra economia da’ segni di un possibile rallentamento – ha minimizzato Bush – per questo e’ incredibilmente importante per me trovare qualcuno che abbia vasta esperienza, che abbia il pugno di ferro e che quando parla, lo faccia con autorita’. Ho trovato un uomo con queste qualita’ in Paul O’Neill”.

Un tono che gli osservatori americani non ricordano sia stato utilizzato neppure per nominare il comandante in capo alle truppe inviate in Kuwait ai tempi della guerra del Golfo.

Che cosa accade, perche’ questa escalation nei toni, perche’ in borsa gli investitori hanno i nervi a fior di pelle e preferiscono perdere piuttosto che aspettare?

Gli economisti hanno detto che ormai e’ il Nasdaq il vero indice della fiducia dei consumatori americani, perche’ non solo da’ conto di cosa pensino dell’economia, ma anche del loro umore e del loro entusiasmo. Il tabellone elettronico sarebbe dunque lo specchio in cui l’America si riflette.

L’America che ha accettato il verdetto della Corte suprema, dove i sondaggi garantiscono che la maggioranza degli elettori, democratici e repubblicani, riconosce senza riserve che George W. Bush e’ il legittimo presidente, il suo presidente.

La nazione che ha visto l’ex governatore del Texas e Al Gore incontrarsi ieri e dopo un colloquio – definito cordiale – posare sorridenti per i fotografi.

La campagna elettorale, trasformatasi nella guerra per la Casa Bianca, ha lasciato pero’ un segno. Come qualcuno, uscito da un brutto incidente, che ritto sulle proprie gambe rassicura i presenti dicendo di non essersi fatto male, anzi di stare benissimo, e viene poi sopraffatto dal dolore che lo choc aveva temporaneamente sopito.

L’adrenalina delle aule di giustizia, degli avvocati, del caso senza precedenti e’ stata assorbita e solo ora la piu’ grande e ricca potenza del mondo sembra accorgersi di non stare bene. Il tabellone elettronico del Nasdaq, dietro al quale non ci sono ne’ un recinto ne’ le grida degli operatori, ma una gigantesca rete di computer che cattura gli ordini di compravendita, pare aver intercettato anche un malessere della nazione e l’indice precipita tanto per le cattive notizie che per la mancanza di quelle buone. Quest’anno l’America non sembra credere neppure a Babbo Natale.