Economia

“Una stagflazione è all’orizzonte”

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I trend macroeconomici in essere, come il calo della produzione globale accompagnato da una reflazione galoppante, inizieranno gradualmente a compromettere gli affari delle società e delle economie mondiali. Questo fenomeno costringerà i banchieri centrali, che vorrebbero avviare una strategia di uscita dalle politiche ultra accomodanti straordinarie. a prendere misure indesiderate nei prossimi anni.

Lo scrive Paul Brodsky, fondatore del gruppo Macro Allocation che offre servizi di analisi macro approfonditi per gli investitori, osservando come di riflesso i mercati finanziari farebbero meglio a iniziare a prepararsi a questo scenario macro di stagflazione già a partire dall’anno in corso. Più in fondo è riportato il grafico dell’andamento dei prezzi al consumo in area euro, che in febbraio sono saliti sul 2%, la soglia ‘sacro graal’ delle autorità di politica monetaria.

Quando all’andamento del Pil, commentatori e analisti incominciano a preoccuparsi – e ne hanno ben donde, secondo Brodsky – dell’indebolimento della ripresa economica statunitense. La variazione percentuale del Pil reale della prima economia al mondo è in una fase di “calo secolare” se si mette a confronto con i periodi precedenti.

L’andamento è particolarmente preoccupante. La recessione provocata dalla crisi finanziaria fomentata dai debiti del 2008-2009 è stata combattuta con i piani di acquisti di asset da parte delle banche centrali, che hanno imposto tassi ultra bassi e in alcuni casi sotto lo zero, distorcendo i mercati. Da allora il Pil reale americano, caratterizzato da un’inflazione al consumo smorzata e una produzione fiacca, ha fatto fatica a tornare sui ritmi di crescita pre crisi. Ha planato a terra senza mai spiccare il volo, attestandosi tra il +2,5% e l’1,6%. Fino ad arrivare al computo del 2017, che dovrebbe essere pari a un misero +0,9% se le stime della Federal Reserve di Atlanta sul primo trimestre si riveleranno corrette.

Crisi come quelle passate ancora possibile

Anche il Senato francese ha riconosciuto, al termine di un’analisi generale della situazione macro economica e dei regolamenti finanziari, che una deflagrazione dello stesso tipo di quella avuta con i mutui subprime in Usa è ancora possibile. E l’impatto sarebbe molto più pesante rispetto al 2008. Gli investitori stranieri nei mercati di Europa e Stati Uniti farebbero meglio a prendere le loro distanze.

Le pressioni deflative se ne sono andate, la disoccupazione è in calo e la ripresa economica è in atto in Europa, ma tutto questo non basta a scacciare i fantasmi delle ultime due crisi, dei mutui subprime e del debito sovrano europeo. Incoraggiata dagli ultimi fattori macro la Bce si appresta a ridurre la mole del programma di stimolo monetario di Quantitative Easing, ma il sistema finanziario resta altrettanto pericoloso di quanto non fosse dieci anni fa. Delle bolle finanziarie si possono ancora formare,  secondo il senatore Pierre-Yves Collombat del gruppo politico Rassemblement démocratique et social européen, e il rimedio è potenzialmente la fonte della prossima crisi.

Stavolta infatti, secondo le sue stime, il sistema finanziario non sarà all’origine della crisi ma rappresenterà “un semplice vettore”, un corridoio di trasmissione. La sua fragilità, in realtà, è la conseguenza dei rimedi utilizzati in passato. In Usa l’ufficio di Statistica Economica non pubblicherà i dati sul Pil dei primi tre mesi dell’anno prima del 28 aprile, ma gli ultimi numeri macro dicono che le spese delle famiglie sono in calo, in un mese in cui la temperatura media è stata magnanima e le condizioni meteo le più calde degli ultimi 60 anni.

Fed commetterà ancora lo stesso errore?

Il tutto mentre la Fed rischia di commettere ancora una volta l’errore di fare affidamento troppo sull’inflazione e meno sui dati che contano sul fronte del mercato occupazionale. Il duplice mandato della banca centrale prevede che la strategia dell’istituto sia volta a raggiungere una stabilità dei prezzi e una piena occupazione.

Significa che Janet Yellen deve agire in equilibrio precario e il margine di errore è molto sottile. Il rialzo dei tassi di interesse di cui la Fed si serve per tenere sotto controllo l’inflazione finisce anche per rallentare la crescita dei posti di lavoro, per rendere più rigide le condizioni creditizie per spingere i cittadini a spendere più per ripagare i loro debiti piuttosto che per consumare e investire.

Finora storicamente la Fed non ha fatto un buon lavoro. Come si vede bene nel grafico sotto riportato, da quando è scoppiata la crisi inflativa a fine Anni 70, la banca centrale è riuscita con le sue misure a porre un freno all’inflazione ma non ha ottenuto risultati altrettanto positivi – per usare un eufemismo – sul frangente della disoccupazione.