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Servizi finanziari: da robo advisor a robo for advisor

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di Lorenzo Raffo

L’evoluzione che si registra sul mercato dell’automatizzazione finanziaria è sempre più al servizio dell’intermediazione 

Luci e ombre, come è inevitabile. Il mondo dei robo advisor fino all’anno scorso sembrava rappresentare la sfida vincente nei confronti della consulenza finanziaria. Ora lo scenario sta assumendo nuove caratteristiche, dovute soprattutto a tre ostacoli: i clienti sono pochi e non crescono in termini di volumi; gli investimenti necessari lievitano in misura eccessiva; la redditività è bassa.
E allora verrebbe il sospetto che la proposta stia per entrare in crisi. Tutt’altro! Assume caratteristiche diverse, con un modello ibrido in forte sviluppo. Gli operatori del settore si trasformano infatti da protagonisti del front-office, cioè interattivi nel rapporto con il cliente finale, in attori del back-office, in altre parole intermediari fra consulenza e investitori. Questo almeno in Europa, dove si sta diffondendo il fenomeno della trasmutazione da robo advisor in robo for advisor.

Risultati deludenti?

Il perché di questa evoluzione potrebbe anche dipendere da performance dei portafogli robo gestiti non proprio esaltanti negli ultimi tempi. Fintanto che i mercati continuavano a crescere la creazione di proposte redditizie era facile ma, con l’entrata in scena della volatilità, la situazione è cambiata. Una simulazione dei rendimenti storici di portafogli moderati strutturati in maniera automatizzata – considerando quelli proposti dai maggiori robo advisor Usa – evidenziava un buon andamento sino al termine del 2017, pur con una caduta nel 2015.In Europa però la situazione appare diversa. Non è facile ottenere informazioni in merito ma la stessa Eba (European banking authority), nell’ambito di uno studio sul settore, ha riconosciuto come una delle poche Authority aderenti in grado di monitorare la situazione abbia accertato che i consigli forniti dai robo advisor di competenza nazionale avrebbero prodotto perdite. L’informazione è da prendere con le molle, poiché l’assenza di riferimenti sui periodi coperti e sul numero di operatori non porta ad accertare la rilevanza delle conclusioni.

Molti ma e se…

L’Eba utilizza vari condizionali nella sua valutazione dei robo advisor. Tuttavia stima che l’impatto dell’automazione della consulenza sia limitato e in crescita soprattutto nell’offerta di ETF, fondi e assicurazioni, mentre troverebbe freni nella diffusione di prodotti più complessi, quali mutui o prestiti ai privati. Attenzione però a giungere a conclusioni affrettate troppo sfavorevoli, così come d’altronde, fino a poco tempo fa, si esagerava forse nell’ottimismo.

Quello dei robo advisor è un mondo in piena evoluzione, dove gli utilizzatori possono scoprire l’utilizzo delle relative piattaforme in maniera indiretta, grazie anche alla scarsa conoscenza media dei mercati finanziari da parte della clientela giovane e di mezza età. Una ricerca effettuata da Oval, sistema che permette di gestire e controllare conti correnti, stima che il 50% dei millenial, persone nate tra gli anni ’80 e il 2000 e che rappresentano l’ultima generazione del ventesimo secolo, detenga mediamente meno di circa 1.000 euro sul conto corrente, con una capacità di risparmio di 135 euro al mese.

Come si può far fruttare un così piccolo tesoro? Occorre offrire strumenti specifici che indirizzino la clientela verso i prodotti potenzialmente più attrattivi dal punto di vista dell’immagine e più dinamici come performance. Pensiamo, per esempio, alla green economy e alla robotica. In questo i robo potranno svolgere un ruolo importante.

Questione di cultura

Torniamo alla ricerca dell’Eba. Uno dei risultati cui giunge riguarda l’insufficiente conoscenza da parte dei potenziali clienti, i quali poco si fidano delle gestioni automatizzate, dando più affidamento all’interazione con l’uomo. Ciò perché occorre capire le finalità di chi investe, obiettivo ancora oggi impossibile per i robo advisor. Questo non esclude un utilizzo sempre più diffuso della multicanalità bancaria, impiegata quando serve: per esempio al fine di abbattere l’onere dei vari costi o per gestire (se si è capaci) ordini di acquisto e/o vendita.

I dati in merito sono strepitosi: in Italia – secondo l’Abi – a fine 2017 il 66% della clientela usava l’Internet o il mobile banking, contro il 50% del 2012. Di qui la preferenza del mercato a muoversi in questa direzione, trascurando l’automatizzazione finanziaria, al punto tale che la stessa Consob – con un atteggiamento un po’ snobistico – sostiene che al momento non sono necessarie nuove regole per controllare l’attività dei robo advisor. In pratica si sta sempre più diffondendo la convinzione – cui si accennava all’inizio – che l’utilizzo dei robo advisor non sia di front office.

La conferma è evidente

Quindi si cambia e lo dimostra il fatto che ormai oltre il 45% delle istituzioni finanziarie ha attivato partnership con le cosiddette società fintech, anche perché si avverte la pressione delle big tech statunitensi e cinesi già attive in diversi settori. Alibaba offre ai privati Yu’e Bao, il maggiore fondo monetario del mondo che investe su certificati di deposito bancari e obbligazioni, con rendimenti interessanti.
Sbarcherà in Europa? Tencent, leader cinese nell’ambito di internet ha ottenuto la licenza per vendere fondi, mentre Amazon ha attivato un sistema vocale che risponde a domande finanziarie grazie alla collaborazione di Ubs. Perfino Microsoft sta muovendosi per entrare in questo mondo.

Ne consegue una pressione che spinge le società leader dell’asset management e del settore bancario a costruire modelli di servizio ibridi che soddisfino una domanda in forte evoluzione. L’industria finanziaria avanza così verso la messa a punto di soluzioni personalizzate, grazie alle quali far colloquiare le proprie reti con il cliente finale, nonché di chatbot – software progettati per simulare conversazioni con esseri umani – destinati ad agevolare continui scambi di informazioni con lo stesso utente finale, il tutto nell’ambito di un’operatività 24 ore su 24 e sette giorni su sette.

Si potrebbe pertanto ipotizzare che il consulente italiano acceda alla stessa piattaforma di proposte utilizzata da quello tedesco o statunitense, pur nella diversità degli asset sottostanti. Rivoluzioni sostanziali insomma, strutturate su un rapporto a tre (investitore-intermediario-macchina) e non a due (investitore-macchina), come inizialmente ipotizzato.

Chi se ne avvantaggerà

A sorpresa, secondo uno studio di Moody’s investor service, il maggiore effetto positivo della presenza dell’automatizzazione lo avranno i big dell’industria del wealth management, in quanto consentirà di aumentare il numero di clienti per singolo banker o consulente, riducendo l’impegno nella costruzione di portafogli solo in parte personalizzate. Le reti, che hanno molti clienti pro-capite, potrebbero invece risentirne, a causa di una concorrenza più diretta sulle fasce basse del mercato.

Dubbi anche Oltreoceano

La discussione sull’utilizzo dei robo advisor, soprattutto da parte dei risparmiatori meno abbienti, comincia a far sorgere qualche dubbio anche negli Stati Uniti, dove la segmentazione più comune fra investitori tradizionali (inclini a scarso rischio/alta propensione alla standardizzazione dei prodotti), multitask (orientati sì alla tecnologia ma sempre con l’ausilio di un intermediario umano) e smart (favorevoli a soluzioni innovative) vede un progressivo restringimento dell’ultima categoria.

Incertezze cominciano perfino a sorgere sulla maggiore competitività dei costi dei robo advisor, non fosse altro perché la guerra a monte sulla riduzione delle commissioni a carico di ETF e fondi sta avvantaggiando l’intermediazione di tipo tradizionale. Il tutto potrebbe portare a credere che il digital wealth management stia clamorosamente frenando o addirittura franando.Non è così. Sta cambiando il suo ruolo e probabilmente cambierà ancora nei prossimi anni, tanto più se si considera che l’intero pianeta della finanza subisce pressioni evolutive di cui non si possono prevedere gli esiti. Si è nel mezzo di un Oceano ma da qualche parte certamente si andrà.

L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di novembre del magazine Wall Street Italia.