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Panama Papers, in Islanda parlamento assediato. In Italia?

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ROMA (WSI) – In paesi in cui le istituzioni economiche e politiche sono forti, come in Islanda, i cittadini si sono indignati enormemente per le rivelazioni dei Panama Papers, mettendo sotto assedio il Parlamento dopo che è emerso il coinvolgimento del capo di governo in uno scandalo di evasione fiscale di dimensioni planetarie. In Italia invece l’indignazione non è stata la stessa.

A parte poche eccezioni come quella della Confedercontribuenti, in confronto a Regno Unito e Islanda, dove il premier ha perso tutta la sua credibilità ma non è accusato di evasione fiscale, fa specie la poca indignazione che c’e’ in Italia, un paese in cui le istituzioni sono meno forti, e i cittadini e i contribuenti sono abituati a barare e frodare il fisco.

Dopo le rivelazioni emerse dagli 11,5 milioni di documenti consegnati alla stampa tedesca da una talpa di uno studio legale di Panama, l’associazione dei contribuenti ha accusato Equitalia di punire le piccole e medie imprese in ritardo nei pagamenti, pignorandole, mentre i grandi evasori italiani la scampano, sfuggendo con troppa facilità alla morsa dell’agenzia fiscale.

Il coinvolgimento del Premier islandese in un sistema di evasione fiscale gli è valso un voto di sfiducia in parlamento e le proteste di decine di migliaia di cittadini fuori dalle aule parlamentari. Sigmundur David Gunnlaugsson, accusato di aver tratto vantaggio da investimenti in conti offshore depositati in paradisi fiscali, non vuole lasciare il suo posto, dicendo che “la moglie ha sempre pagato le tasse”.

“Nei paesi in cui le istituzioni economiche sono deboli e lo stato è spesso poco più di un racket di protezione, le persone tendono ad accettare cinicamente le rivelazioni – è improbabile che sia messa la pressione su figure chiave per far rendere dei conti”, dice Andre Spicer, Professore di comportamento organizzativo alla Cass Business School di Londra e Direttore del Centro per l’Impresa Responsabile presso lo stesso centro universitario.

L’ampia diffusione dell’evasione fiscale, secondo Spicer, ha grandi costi diretti e indiretti. Secondo alcune stime, l’evasione fiscale costa ai governi di tutto il mondo 3.100 miliardi di dollari all’anno.

La ricerca ha dimostrato che nei paesi in cui l’evasione fiscale è più comune, come in Italia, “gli individui sono anche più propensi a barare in molti aspetti della vita di tutti i giorni, con un impatto negativo per la società: dalle interazioni quotidiane, come il prestare qualcosa a un vicino di casa, al rapporto tra i cittadini ed i loro rappresentanti eletti”.

In Islanda parlamento sotto assedio

Per proteggere i deputati dalle decine di migliaia di manifestanti che con tamburi, lancio di uova e yogurt hanno espresso la loro indignazione nei confronti del leader politico, le forze di polizia islandesi sono state costrette a alzare le barricate intorno al parlamento nella capitale Reykjavik. Intanto i partiti all’Opposizione hanno chiesto le dimissioni del premier, indicendo un voto di sfiducia.

Nei documenti Panama Papers si legge come Gunnlaugsson e consorte, Anna Sigurlaug Pálsdóttir, hanno comprato nel 2007 dallo studio legale Mossack Fonseca un’azienda con sede nelle Isole Vergini per investire i soldi guadagnati dalla vendita della quota azionaria del business di famiglia detenuta da Pálsdóttir.

Gunnlaugsson non è accusato di avere evaso il fisco, ma di comportamento moralmente scorretto. Il politico ha venduto il 50% a Pálsdóttir per un dollaro alla fine del 2009, poco dopo essere stato eletto primo ministro e un anno dopo lo scoppio della grave crisi che ha messo in ginocchio il sistema finanziario dell’isola, spingendo l’economia in una fase di depressione.

Da quando è diventato premier nel 2013, Gunnlaugsson ha fatto da supervisore a negoziati molto delicati con i creditori di tre delle principali banche islandesi che hanno fatto crac durante la crisi del 2008. Lo avrebbe fatto mentre era consapevole che alla società offshore della moglie, Wintris, che ha perso 515 milioni di corone (2,8 milioni di sterline) con il default degli istituti,  spettava una somma considerevole di denaro come conseguenza dei fallimenti delle banche.

Conti offshore del padre inguaiano Cameron

David Cameron è senza dubbio insieme a Vladimir Putin uno dei nomi più illustri comparsi nell’inchiesta giornalistica investigativa dei Panama Papers. La stampa britannica lo ha preso di mira con editoriali e articoli al fulmicotone in cui vengono dati in pasto all’opinione pubblica tutti i dettagli dello schema attraverso il quale il padre Ian avrebbe nascosto per decenni al fisco britannico le sue fortune di broker della finanza.

La stampa britannica riferisce come Ian Cameron, scomparso nel 2010, avrebbe dirottato fin dal 1982 ingenti somme di denaro in Centro America, facendo ruotare in seno al board della sua società – la Blairmore Holdings – decine di prestanome caraibici. Con l’opinione pubblica britannica che si domanda se parte del tesoro di famiglia dei Cameron sia ancora sotto il sole di Panama, la portavoce del premier ha ribattuto che si tratta di “questioni private”.

Ma ora in un momento quanto mai delicato per l’economia, il mercato del lavoro, la sterlina e il futuro politico del Regno Unito – che con il referendum del 23 giungo potrebbe anche uscire dall’Unione Europea – la posizione di Cameron si fa sempre più indifendibili, mentre dai documenti scottati rivelati dal Consorzio di giornalisti ICIJ continuano a uscire i nomi di notabili e donatori del Partito Conservatore di cui Cameron è leader. Il governo ha precisato che il premier non ha quote nella società offshore creata dal padre.

In attesa di altri chiarimenti e mentre da più parti si esorta il governo britannico a prendere contromisure più ferree contro le operazioni offshore, arriva immancabile l’attacco dei partiti all’Opposizione britannica. Il leader dei laburisti Jeremy Corbyn sottolinea come “accumulare soldi in paradisi fiscali strappa risorse ai servizi sociali”.

Fonti: Bloomberg