di Jason Borbora (Investec AM) Assistant Portfolio Manager di Investec Asset Management

Che cosa abbiamo imparato dalla crisi di Lehman Brothers?

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

Guardando agli ultimi dieci anni successivi al crac di Lehman Brothers, ci sono tre aspetti di particolare rilievo: in primo luogo, abbiamo assistito a un enorme aumento degli investimenti passivi. Si stima che circa 8 trilioni di dollari americani di asset siano passivi, corrispondenti a circa un quinto degli asset under management globali.

Oggi sembra che si ponga maggiore importanza a view macroeconomiche top-down che ad analisi bottom-up fondamentali dei titoli. Secondo noi, questo potrebbe essere un fattore insidioso per il futuro, qualora dovesse verificarsi una prossima crisi.

In secondo luogo, gli investitori hanno ormai accettato i rendimenti negativi e circa il 20% dell’indice dei titoli di Stato dei mercati sviluppati offre questi ritorni. La situazione si è bilanciata in qualche modo, ma in molte parti dell’Europa e in Giappone investendo in titoli di Stato si ha ancora la garanzia di rendimenti negativi dell’investimento se si tiene il titolo fino alla scadenza.

Infine, le Banche Centrali hanno potuto creare liquidità attraverso i loro programmi di Quantitative Easing. Il solo bilancio della Federal Reserve americana è aumentato da circa 1 trilione di dollari americani a 4.5, il suo livello massimo, e tutto ciò è stato ottenuto senza aver alimentato un’inflazione economica significativa.

Dieci anni dopo Lehman Brothers, c’è una lezione che non è stata appresa

C’è una lezione che non sembra sia stata bene appresa: gli investitori tendono ancora a riversarsi in massa sugli investimenti più popolari. Un atteggiamento da evitare.

All’inizio del 2008, le società finanziarie rappresentavano la più ampia esposizione dell’indice S&P 500 (circa il 20%). Oggi, i titoli finanziari hanno un peso inferiore rispetto alle società operanti nell’healthcare, dove quelle tecnologiche fanno la parte del leone. Gli investitori tendono a muoversi rapidamente e in massa verso gli investimenti.

Mentre la mole di liquidità creata dal Quantitative Easing inizia a ridursi quest’anno, temiamo che quei bruschi movimenti del settore obbligazionario e azionario possano diventare sempre più una costante.

A nostro avviso, al momento le probabilità di una recessione il prossimo anno sono relativamente basse, circa il 10%. Guardando ai prossimi due, però, arriviamo al 50% basandoci sulla curva dei rendimenti e sulla differenza tra prodotto interno loro effettivo e potenziale (output gap).

Oltre al fatto che l’attuale ciclo economico inizia a sembrare un po’ logoro, lo S&P 500 è a livelli record, le valutazioni sono molto meno attraenti, il Quantitative Easing inizia a fare retromarcia e c’è minore liquidità disponibile perché le Banche Centrali sono ancora in un ciclo restrittivo. Considerando tutti questi fattori, secondo noi gli investitori dovrebbero pensare seriamente a come proteggere i loro portafogli da potenziali crolli e salvaguardare almeno in parte i guadagni ottenuti negli ultimi dieci anni.

Per questo motivo siamo posizionati in modo più difensivo rispetto a quanto lo siamo mai stati negli ultimi cinque anni e la nostra allocazione più bassa è sui growth assets, cioè quelli che traggono beneficio da uno scenario economico positivo. In questa direzione, abbiamo ridotto l’esposizione ai titoli azionari e alle obbligazioni corporate, ma abbiamo mantenuto un potenziale di rialzo attraverso le opzioni call.

Gestiamo un portafoglio con duration relativamente bassa, perché a nostro avviso i titoli di Stato non riusciranno più a bilanciare le perdite sul fronte azionario come in passato.