Economia

Ma la banca è una “impresa”?

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Il quesito sorge spontaneo dopo la lettura dell’analisi apparsa sul Sole 24 Ore del 26 ottobre (“L’idea del terzo polo”). L’articolo tratta le ipotesi di uscita dello Stato, che arriverà a possedere poco meno del 70%, dal capitale della banca e che potrà avvenire in tre possibili forme.

Esse sono: la vendita della propria quota in borsa, la cessione ad un altro gruppo bancario o la fusione con un altro istituto domestico. Tutte e tre sono, in misura diversa, condizionate da alcuni fattori. Il primo è quello delle “valutazioni di mercato al momento della way out“. Chi e cosa le determinerà?

In una “impresa” propriamente detta è la sua azione sul mercato a crearla, azione descritta in un piano industriale (o Business Plan), e la sua successiva realizzazione. Di questo al momento non vi è traccia o meglio la sua esistenza è totalmente ignorata dal mercato, almeno considerando i comportamenti degli investitori, riportati dallo stesso giornale, basati solo su considerazioni tecniche e non sul sottostante. Dove sono i piani innovativi di MPS che possono attrarre l’interesse degli investitori come accade per altre “imprese” da Tesla ad Amazon o, senza andare troppo lontano, da Luxottica a Brembo?

Poi vi è l’andamento dei tassi di interesse, che certamente “condiziona i margini reddituali“. Questi però fanno riferimento alla “materia prima” che tratta la banca, ovvero il denaro. Se i margini di una “impresa” di un altro settore fossero condizionati esclusivamente dall’andamento dei costi della materia prima vorrebbe dire che non è capace di aggiungere valore ad essa. Dunque sarebbe un intermediario costoso, poco utile e forse dannoso nella filiera a cui appartiene, di conseguenza certamente destinato a scomparire. È questo il destino della MPS e delle banche in generale? In alternativa quali sono i progetti per aggiungere valore al denaro prestato?

Altro punto sono “le indicazioni della commissione Ue e soprattutto della Vigilanza della Bce“. Giustissimo, i regolamentatori con i loro comportamenti possono certamente influenzare le prestazioni aziendali in un mercato. Anche altre “imprese” si cimentano quotidianamente con i propri regolamentatori. Basti pensare al farmaceutico, l’alimentare, persino l’automotive. Ad esempio negli Stati Uniti vi è l’obbligo, da parte dei costruttori, di accantonare somme rilevanti nel bilancio per finanziare eventuali richiami delle auto che presentano potenziali difetti che possono creare problemi e danni. Ciò non ha impedito alla FCA, ad esempio, di avere recentemente una ottima performance di bilancio. Perché quando si parla di banca il ruolo del regolamentatore è sempre considerato prioritario rispetto a quanto la banca dovrebbe fare con la sua azione imprenditoriale?

Nello stesso articolo si ricorda che MPS è rimasta “sostanzialmente un rete di distribuzione“, una “una pura rete che raccoglie, impiega e commercializza prodotti di terzi” e questa viene giudicata una “condizione di debolezza del modello di business che può rendere difficile un percorso autonomo e redditizio“. Per quale motivo?

A partire dagli anni ’80 si è diffusa, prima negli USA poi nel resto del mondo, il modello della concentrazione sul “core business” andando a dare in outsourcing sempre più fette della catena di fornitura: produzione, distribuzione, supporto post-vendita, ecc. Tale fenomeno ha investito tutti i settori industriali, sia di produzione di beni che di servizi. Le “imprese” si sono concentrate sulle attività a reale valore aggiunto: servire i clienti, progettando, e non necessariamente costruendo, prodotti e servizi per loro. Sul fronte delle relazioni con il mercato MPS pare stia continuando a fare bene, perché allora non viene considerato un punto di forza da cavalcare come, ripeto, fanno da tempo le “imprese” di tutti i settori?

Mi fermo qui, anche se si potrebbe continuare. Spero che queste mie provocazioni possano stimolare un dibattito intorno a questi temi ma, sopratutto, spingere affinché le banche, non solo MPS, finalmente si comportino da “imprese normali”. Se l’obiezione di fondo sarà “ma la banca è diversa”, non si capisce perché allora deve comportarsi come una impresa uguale alle altre (avendo come unico interesse quello di fornire valore agli azionisti, con manager incentivati ad esso, ecc.). Se invece non è diversa, pur considerando le sue peculiarità (come qualsiasi azienda in tutti i settori industriali), l’eventuale impossibilità nel farla diventare impresa è nei fatti o negli uomini che le governano che non hanno, evidentemente, nuove conoscenze necessarie per poterlo far accadere?