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Il giorno dell’indipendenza della Catalogna (già costata 20 miliardi)

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La storia insegna che raramente l’indipendenza si ottiene con un voto democratico. A parte l’episodio della secessione ‘consenziente’ di ambo le parti tra Repubblica Ceca e Slovacchia o l’allontanamento semi pacifico della Slovenia dal blocco yugoslavo – e pochi altri casi isolati – di solito l’indipendenza si conquista con rivoluzioni o guerre. Vista l’opposizione delle autorità centrali spagnole, era un’illusione sperare che a quella della Catalogna si potesse arrivare con un voto pacifico.

Oggi, come preannunciato dal suo presidente nelle ore successive alla vittoria dei si nel referendum sulla secessione, il governo della Catalogna dovrebbe proclamare l’indipendenza dalla Spagna, secondo le autorità regionali un risultato giustificato – secondo le autorità della regione che conta per il 19% del Pil dell’intero paese – dal referendum di domenica primo ottobre. Ma il voto non viene considerato valido dal governo centrale di Madrid, essendo esso incostituzionale e quindi illegale. L’esecutivo minaccia di impedire, anche con la forza, alle autorità locali di procedere.

Su questo punto il discorso delle autorità spagnole è ineccepibile. I problemi sono però due, e riguardano come è stata gestita la situazione critica e delicata prima e il durante il voto. Innanzitutto, secondo i commentatori e politologi, l’errore dell’esecutivo di Madrid guidato dal partito conservatore PP (Partido Popular) del premier Mariano Rajoy è stato quello di non trovare un modo per lasciare i catalani liberi di votare. La Catalogna chiedeva da anni uno status con maggiore autonomia, soprattutto economica e fiscale, al pari di Canarie e Paesi Baschi, ma non le è stato mai concesso.

Il secondo grave problema è relativo alle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze dell’ordine per impedire che il voto in Catalogna si svolgesse, due domeniche fa. Per alcuni, come Nigel Farage, è un atto che va contro l’articolo 2 del trattato di Lisbona e pertanto la Spagna dovrebbe essere sospesa dall’Ue. La Catalogna aveva proposto un modello di statuto per avere maggiore autonomia, in particolare in materia fiscale, sulla falsa riga di Canarie e Paesi Baschi, ma il PP si è opposto.

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Catalogna: un conto da 20 miliardi destinato a salire

Intanto le tensioni non si allentano e rischiano di portare la Spagna sull’orlo della guerra civile. L’indipendenza solo minacciata è già costata 20 miliardi di capitalizzazione in Borsa. Senza contare i 123,9 punti base raggiunti dallo Spread, con il rendimento decennale dei Bonos che è salito dall’1,59% all’1,69%. È il prezzo da pagare (destinato a crescere ancora) per una crisi gestita male dall’una e dall’altra parte.

Al conto già così molto salato della fuga va aggiunto poi la fuga di nove grosse imprese, soprattutto banche come Caixa Bank e Sabadell, da Barcellona. Alicante, Valencia e Madrid sono le nuove mete. Anche Seat, grande gruppo dell’auto ora controllato da Volkswagen e prima da Fiat, potrebbe rinunciare alle attività in sede catalana. In un’intervista concessa una settimana esatta dopo il voto, Rajoy ha dichiarato che “Madrid impedirà la minima dichiarazione di indipendenza”.

Quando il giornalista gli ha chiesto una domanda sull’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione che permette di sospendere l’autonomia di una regione, Rajoy ha detto che “nulla è da escludere”. Così facendo, il governo rischia di alimentare il nervosismo e favorire lo scontro. Da Barcellona nel frattempo è arrivato invece un timido segnale di pace.

A metà mattinata la Borsa di Madrid guadagna un punto percentuale dopo che un esponente di spicco dell’amministrazione della Catalogna ha lanciato un appello per avviare un dialogo con la Spagna. Detto questo, l’indice azionario Ibex è in calo dell’1,2% da quando il popolo catalano ha votato a stragrande maggioranza a favore dell’indipendenza nel referendum illegale.

Spagna divisa in tre, torna “Europa delle regioni”

Non solo a Madrid e Barcellona, ma su tutto il territorio spagnolo è tempo di manifestazioni. Il tipo e numero di cortei in scena domenica descrive bene il panorama attuale sulla questione catalana: è quello di un paese ormai spaccato. Le posizioni sono principalmente tre: quella degli indipendentisti, quella degli unionisti, ossia i partigiani dell’unità e del rifiuto secco della secessione (50 mila manifestanti previsti a Madrid), mobilitati dal Partito popolare PPE e dall’estrema destra, e quella dei “bianchi” che promuovono il dialogo.

Gli unionisti sono scesi in strada anche a Barcellona, dove le immagini sono quelle di un’immensa marea tinta di giallo e rosso, i colori della Spagna, contro l’indipendenza. Probabilmente la capitale della Catalogna non ha mai visto tante bandiere spagnole tutte riunite insieme (950 mila manifestanti secondo gli organizzatori, 350 mila secondo le autorità).

Vestiti di bianco, sotto lo slogan “Hablemos” (“Parliamo)”, per denunciare tutti i partigiani dell’una o dell’altra fazione, 1.500 persone hanno invece sfilato a Madrid e migliaia a Barcellona per lanciare un appello al dialogo tra i partiti coinvolti nel conflitto sull’autonomia della regione  Catalogna.

Gli egoismi regionali non interessano solo la Catalogna, tuttavia. Il 22 ottobre si vota in Veneto e Lombardia per una maggiore autonomia: anche se il referendum non è vincolante rischia di mandare un messaggio negativo sulla coesione nazionale. Forse è proprio vero, come osservava il chief economist di Citigroup Willem Buiter, che è tornata “l’Europa delle Regioni”.

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