Economia

Deutsche Bank: Trump non c’entra, economia mondiale dipende da altro

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La recente ripresa economica degli ultimi mesi, che ha interessato diverse aree dell’economia mondiale, inclusa l’Europa, non è affatto merito di quello che da novembre, giorno dell’Election Day in Usa, è stato battezzato “effetto Trump”. Non sono state le scommesse sull’adozione di una politica fiscale espansiva negli Usa, fatta di taglio alle tasse e di boom delle spese per le infrastrutture, a  sostenere la crescita degli Stati Uniti, del G7 e, in particolare tra i paesi, della Germania.

Per gli analisti di Deutsche Bank, il motore della recente ripresa è stato piuttosto la Cina.

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E’ necessario fare un ulteriore passo indietro per capire come Donald Trump alle elezioni Usa non c’entri niente. E ricordare invece quel meeting segreto tra i potenti del pianeta che si svolse in Cina, e che precedette il lancio del bazooka fiscale di Pechino, all’inizio del 2016. Un bazooka, finanziato dai proventi degli proprietà dello Stato e dal boom del mercato immobiliare.

Deutsche Bank indica anche un altro fattore che merita attenzione: la volatilità del forex, che appare bassa in relazione all’incertezza politica globale, motivo per cui  Oliver Harvey, analista della banca tedesca, afferma di star scommettendo sulla fine di questo periodo di calma economica, e afferma di ritenere che sia arrivato il momento di aprire posizioni long sulla volatilità del forex.

 

Tale grafico conferma nel dettaglio come dell’effetto Cina abbia beneficiato molto la Germania, che ha assistito a un vero e proprio boom delle sue esportazioni nel paese, volate a livelli record.

Ciò significa, come avverte Deutsche Bank che:

“Se la Cina dovesse di nuovo rallentare il passo, l’attuale contesto di propensione al rischio avrebbe vita breve, soprattutto se si considerano il rialzo dei prezzi del petrolio e la nostra opinione, secondo cui gli stimoli di Trump impiegheranno almeno qualche trimestre per produrre effetti sulla crescita Usa“.

Ed è già evidente come alcuni indicatori macroeconomici della Cina, relativi alla vendita di terreni e ai volumi delle merci, suggeriscano come l’effetto di quel bazooka fiscale lanciato da Pechino si stia smorzando, e non di poco.

Le preoccupazioni per la Cina sono inoltre alimentate dal crollo delle riserve in valuta estera, che a gennaio, per la prima volta in quasi sei anni, sono scese sotto la soglia di $3 trilioni, a dispetto dei controlli sui capitali lanciati dalle autorità. Diversi analisti lanciano un allarme sulla velocità a cui la Cina sta assistendo alla distruzione delle munizioni necessarie per difendere la propria valuta e temono che il tonfo delle riserve potrebbe portare Pechino a svalutare lo yuan, la propria moneta. Nell’intero 2016, lo yuan è sceso -6,6% nei confronti del dollaro, soffrendo la flessione peggiore, su base annua, dal 1994.