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Cina, nuova apertura ai capitali esteri. Cosa cambia (davvero)?

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Siamo ancora ben lungi da una completa apertura ai capitali esteri. Ma non appena conclusa la visita di Donald Trump a Pechino, è stata annunciata – a sorpresa –  una nuova tappa del processo di liberalizzazione del mercato cinese. Una delle più importanti di quelle realizzate nei servizi finanziari, scrive il Financial Times, da quando Pechino ha aderito alla World Trade Organization nel 2001.

Di cosa si tratta? Da venerdì scorso, le aziende straniere possono possedere il 51% del capitale di banche, venture capital, assicurazioni e società di gestione. Il tetto sparirà entro tre anni per le banche e nel 2022 per le compagnie, scrive il Sole 24 Ore.

Sulla carta si tratta di un cambiamento epocale. Che dovrebbe aprire le porte del colosso asiatico alla competizione degli operatori esteri. Cosa di cui la Cina ha disperatamente bisogno. Anche e soprattutto nel comparto finanziario, appesantito da troppo debiti: si calcola che a livello aggregato, abbiano superato il 260% del pil, contro il 160% del 2008, tra passività di governo, famiglie e imprese.

Tuttavia è probabile che le autorità di Pechino – che controllano interamente o parzialmente la quasi totalità delle banche e compagnie assicurative cinesi – siano decise a mollare le redini con gradualità. E in ogni caso, l’appeal di un’incursione da parte degli operatori stranieri varia significativamente nei diversi segmenti del comparto finanziario. Le banche, scrive FT, non si lasceranno sedurre dalla possibilità di finanziare il settore corporate, uno dei più indebitati al mondo. Al contrario, numerose istituzioni occidentali – da Goldman Sachs a Ubs, da Citigroup a Bank of America hanno già ceduto le quote detenute in alcune grandi banche commerciali cinesi.

“È molto più probabile che gli asset manager si facciano tentare”, scrive il quotidiano finanziario. “Anche perché l’accesso al mercato azionario e obbligazionario cinese agli investitori esteri è migliorato in modo sostanziale negli ultimi anni”. Il riferimento è ai canali di scambio diretto tra le borse valori di Shanghai e Shenzen e quella di Hong Kong, lanciate nel novembre 2014 e nel dicembre del 2016. Senza dimenticare la recente decisione di includere il 5% delle azioni di classe A (titoli di società della Cina continentale quotate a Shanghai o Shenzen e denominate in renminbi), nei benchmark di riferimento da parte di MSCI.

La Cina, dunque, avanza verso una progressiva internazionalizzazione. Pronta però a una rapida marcia indietro – questo il timore degli operatori – per ripristinare il proprio controllo sull’economia e sul mercato, in caso di necessità. Come avvenuto in passato.