Economia

“Chi promuove austerità e riforme non ha capito crisi”

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A distanza di quasi cinque anni dalla crisi che nel 2011 ha messo a repentaglio l’unità dell’Area euro, le diagnosi del professor Paul De Grauwe suonano ancora distanti anni luce dai luoghi comuni che animano il dibattito sul futuro della moneta unica. Dalla cattedra della London School of Economics De Grauwe, da tempo ormai, sconfessa il ruolo che avrebbero avuto le finanze pubbliche nell’innescare la crisi di fiducia sulla sostenibilità dell’Eurozona.

Il problema di fondo che ha innescato l’impennata degli spread deve essere ricercato, infatti, nell’incremento del debito privato negli anni precedenti alla crisi, il quale è stato assai più significativo di quello dei debiti pubblici, dice il professore nel corso della sua lezione presso l’Università Cattolica di Milano. Gli stati sono intervenuti in seguito alla crisi del settore privato, e, solo dopo il debito pubblico è cresciuto, come conseguenza e non come causa della crisi. Per De Grauwe l’introduzione dell’euro ha distorto la percezione dei rischi generando un ottimismo che si è tradotto in ingenti flussi di credito verso le economie che poi sarebbero state colpite dalla crisi del 2011.

Lo schema del “boom and bust” del capitalismo si è ripetuto all’interno dell’area euro, con un problema aggiuntivo non da poco: Paesi come l’Italia o la Francia non possono garantire ai loro creditori di poter disporre sempre del cash necessario per ripagare i propri debiti, in quanto non controllano l’emissione della moneta con la quale essi sono denominati, l’euro. Siccome la Bce nel 2011 non poteva intervenire direttamente a finanziamento degli stati, il mercato ha provato a scommettere sulla rottura dell’Eurozona e gli spread sono saliti come conseguenza di un “rischio di ridenominazione”, vale a dire: il timore che i debiti contratti con Paesi come l’Italia potessero essere restituiti in lire (svalutate).

Aggiustare nel modo corretto l’Eurozona, secondo il professore della London School of Economics, non può prescindere dall’aver compreso esattamente che cosa rende instabile questa struttura, che De Grauwe non esita a definire ancora molto “fragile”. Fra i “dogmi da buttare via” secondo l’economista belga sono compresi “i mercati che si autoregolano”, “che le riforme strutturali basteranno a risolvere tutto”, “la legge di Say”, “che solo il settore privato è produttivo”. Di fatto, l’introduzione dell’euro ha tolto alcuni importanti meccanismi di stabilizzazione in caso di shock finanziari che rendono il loro impatto fortemente asimmetrico, in particolare i paesi più esposti (come i Piigs) debbono costantemente fare i conti con la costosa sfiducia dei mercati che avvicina oltre misura la prospettiva di una crisi di liquidità nell’onorare i debiti.

Ovviamente, mentre questo status quo espone costantemente alcuni paesi a costi aggiuntivi per finanziare la propria spesa pubblica, produce vantaggi, d’altro canto, per nazioni come la Germania, che in fasi d’incertezza attira volumi enormi di capitali dalle altre parti di Europa. “Non è sostenibile”, dice con convinzione De Grauwe; per questo, se si vuole salvare il progetto Europeo sarà necessario riformare la governance delle istituzioni unitarie a partire dalla Bce.

L’annuncio del programma Omt di acquisto di titoli di Stato da parte del presidente Mario Draghi, mostra il professore con dati alla mano, è stato il fattore determinante per il rientro degli spread: bisogna dunque mostrare la volontà di armonizzare i rischi all’interno dell’area euro. De Grauwe, pertanto, propone di:

  1. Permettere alla Bce di acquistare direttamente i bond statali che si trovano sotto la pressione dei mercati
  2. Inserire fra i mandati della Bce l’armonizzazione dei costi di finanziamento da parte degli stati

In prospettiva, per evitare che l’intervento della Bce risulti l’unico fattore coesivo, sarebbe necessario creare un budget federale che unisca la gran parte degli stock di debito pubblico dei vari Paesi europei, in modo da disinnescare, anche qui, quelle speculazioni finanziarie mitigate poi a fatica dalle politiche fiscali restrittive che tutti conosciamo.

“È come chiedere una donna in sposa con la promessa di mettersi a suo carico per il resto dei suoi giorni”, commenta ironicamente un collega di De Grauwe a fine conferenza: la sensazione diffusa è che si stia parlando di una lista di sogni. “Non è un buon motivo per non raccontare questa storia”, afferma l’economista belga, anche se le ragioni per essere ottimisti, con una politica così divisa fra i vari Paesi europei, restano ben poche.

Austerità e riforme inadatte a superare crisi

Professor De Grauwe, in questi giorni si parla molto di riforme del mercato del lavoro in Francia e non solo. Secondo lei questo genere di misure sono sufficienti per mettersi al riparo da nuove crisi?

Penso che ci sia un grande pericolo, perché il modello che abbiamo applicato per rispondere alla crisi penso sia stato quello sbagliato. La crisi non ci aveva richiamato a questo genere di riforme strutturali, ma a qualcosa di molto diverso. Questa è una crisi del capitalismo, in quanto dopo la crisi finanziaria ci sono stati investimenti e consumi insufficienti e ora abbiamo bisogno di governi che abbiano in programma di investire di più. Agire attraverso l’abbassamento dei salari non è la strada da percorrere, non risolve il problema. Le conseguenze sono anche politiche, perché ora i nemici dell’Eurozona sono sempre di più ed è vista in modo crescente come qualcosa di negativo.

Due sono le prospettive teoriche: quella che rivendica politiche più espansive e quella dei falchi del rigore; la seconda ritiene che l’attuale status quo, con le riforme, potrà durare ancora a lungo. Perché i falchi si sbagliano, secondo lei?

Perché non hanno capito la natura della crisi, che [nell’Eurozona] è un tipico scenario “boom and bust”, che il capitalismo ha sempre avuto. Il tipo di reazione che si è avuta in seguito al “bust”, alla frenata, imponendo l’austerity, rende solo le cose peggiori: ha creato stagnazione nell’Eurozona e ha destabilizzato il sistema politico in molti Paesi. E’ già successa una destabilizzazione simile negli anni Trenta, e con terribili risultati. Dobbiamo e possiamo evitarlo.

Il problema dell’unificazione politica e fiscale si scontra sempre con la critica che i Paesi meno competitivi avrebbero, tramite gli interventi di un governo centrale, pochi incentivi a riformarsi e a dipendere sempre di più dai trasferimenti. Detto altrimenti, si creerebbero problemi di azzardo morale. Crede che dietro al timore dell’azzardo morale si nasconda in realtà una scusa per non fare quanto sarebbe necessario a salvare l’Eurozona?

Penso che l’azzardo morale sia un problema, non dico certo che non esiste. Ma penso che le istituzioni possano stabilire alcune regole in grado di proteggersi da questo problema. Ma la ragione per la quale siamo in crisi ha poco a che fare con l’azzardo morale, ma col fatto che la gente non aveva percepito i rischi. Chiariamo questo punto. Quando c’è azzardo morale colui che s’indebita sa dell’esistenza dei rischi, ma continua a indebitarsi nella consapevolezza che esiste un’assicurazione a suo difesa in caso d’insolvenza; ma il rischio viene riconosciuto. La crisi dell’euro nasce dal fatto che i privati non erano a conoscenza dei rischi e avevano fatto investimenti ciechi pensando che sarebbe stato tutto fantastico. Questa è la ragione degli squilibri che hanno portato alla crisi, non l’azzardo morale.

Come convincere la Germania di questa impostazione, aprendo la prospettiva di una mutualizzazione del debito?

Sarà molto difficile. Io ci ho provato, ma ho fallito miseramente. Perciò non è facile.